Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 12/12/2007, 12 dicembre 2007
successo pochi giorni fa, in un centro dell’hinterland napoletano: un colpo di pistola sparato alla gamba di un imprenditore edile
successo pochi giorni fa, in un centro dell’hinterland napoletano: un colpo di pistola sparato alla gamba di un imprenditore edile. Le indagini sono indirizzate verso la rappresaglia contro l’uomo che non compra più il cemento dal solito fornitore, di qualità scadente, ma s’è rivolto altrove. Ha «sgarrato» a una forma di estorsione sommersa ed è stato «avvisato ». la nuova insidia della camorra: il racket che non sa di racket, il «pizzo» indiretto imposto attraverso l’obbligo di acquistare merci qua o là. Forse un’alternativa alla riscossione esplicita che sta diventando un po’ a rischio, vista l’ondata di processi agli esattori della malavita che s’è abbattuta su Napoli negli ultimi anni. Dal novembre 2004 a oggi sono stati avviati, grazie alle denunce degli «estorti», 61 procedimenti penali. In 49 casi c’è già stato il rinvio a giudizio contro 231 imputati, con 36 sentenze di primo grado e 134 condanne. Quasi ottocento anni di carcere, una media di cinque anni e mezzo di pena per ciascun colpevole riconosciuto. Cifre ancora minime per un fenomeno che riguarda oltre il cinquanta per cento dei commercianti e degli imprenditori campani, ma importanti rispetto al deserto di prima. Perché i condannati vanno in galera e ci restano, a differenza che per altri reati (omicidi compresi). E le denunce nel 2007 sono arrivate a 734. Grazie a questi numeri la Campania è divenuta la regione col maggior numero di persone denunciate per estorsione (1.713), mantenendo un ritmo sempre crescente. Al contrario della Sicilia, dove la mafia impone il «pizzo» sul 70 per cento di negozi e imprese, e le denunce sono in calo. Una piccola riscossa delle vittime della «Gomorra» denunciata dallo scrittore Roberto Saviano col suo best seller. Il signor Rosario D’Angelo è un piccolo costruttore trentottenne che dal padre ha ereditato la ditta, fondata nel 1980, assieme alle quote di racket richieste dai clan delle varie zone in cui apriva i cantieri: da Secondigliano al porto di Napoli. «All’inizio chiedevano una cifra per ogni lavoro avviato – racconta ”, con la solita storia della sovvenzione ai familiari dei detenuti. Poi hanno cominciato a chiedere i contratti, per valutare il valore dell’appalto e pretendere una percentuale che andava dal 5 all’8 per cento». Alla tassa della camorra D’Angelo ha deciso di opporsi, e a fine 2004 un ispettore di polizia travestito da capocantiere ha raccolto in diretta la richiesta dei camorristi facendo scattare le manette. «Ho calcolato di aver risparmiato circa 250.000 euro in tre anni – commenta D’Angelo, testimone d’accusa in due processi – e quei soldi li ho in parte reinvestiti. Ho comprato un camion e un ponteggio mobile, e i lavoratori della ditta sono passati da 4 a 13». Ma le ritorsioni? «Nessuna, perché grazie all’associazionismo per la camorra significherebbe solo peggiorare la situazione». L’associazionismo a Napoli l’ha portato Tano Grasso, l’ex commissario antiracket cacciato nel 2001 dal governo Berlusconi e chiamato in città dal sindaco Iervolino, come consulente. «Grazie a lui e alla sua esperienza – dice il coordinatore cittadino Gigi Cuomo – le denunce sono diventate un sistema di risposta collettivo, e così i processi dove ci siamo presentati in tanti e ci siamo costituiti parti civili. Come contromisura la camorra ricorre al rito abbreviato per ottenere una pena più mite, dando per scontata la condanna. Oppure avvicina i denuncianti e propone un risarcimento economico, che molti non accettano». Il primo a esporsi con nome e cognome fu, alla fine del 2003, Raffaele Cangiano, rivenditore di vernici nella periferia di Pianura, che pagava il «pizzo» tre volte all’anno: Pasqua, ferragosto e Natale. Quando dalle finte regalie passarono alla richiesta di tassa mensile, decise di ribellarsi: «Una scelta che in famiglia ho fatto digerire a fatica, perché la paura è naturale. Poi anche loro hanno capito che da quella spirale non saremmo più usciti, perché ormai arrivavano a presentarsi perfino clan diversi nella stessa zona, e nemmeno pagare dava tranquillità ». A meno di un anno di distanza, i boss denunciati da Cangiano hanno subito le prime condanne. E dopo di lui sono arrivati gli altri, che oggi danno a Napoli un primato che può suggerire un nuovo metodo di lotta alla criminalità organizzata per tutto il Mezzogiorno. «La denuncia non è più un atto di coraggio – spiega Tano Grasso – ma una strategia pianificata "a freddo", assieme alle forze dell’ordine. Non sull’onda di qualche emergenza, come fa di solito la politica nazionale, ma come programma per rendere non conveniente per la camorra una reazione violenta. Non a caso, tranne un testimone, chi ha denunciato non ha avuto bisogno della scorta». Una conseguenza può essere proprio il cambio di strategia dell’organizzazione criminale, che passa all’estorsione indiretta imponendo l’obbligo di «loro» fornitori: «Una forma subdola di "pizzo", più difficile da sentire come tale – insiste Grasso ”, ma ugualmente pericolosa e contro cui l’unica difesa resta la denuncia. Un modello vincente da esportare altrove, a cominciare da Palermo». Cioè l’altra capitale del crimine dove il racket mafioso rischia di soffocare l’economia legale. Giovanni Bianconi FULVIO BUFI NAPOLI – Franco Roberti, procuratore aggiunto e capo della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, sulle estorsioni ha una tesi semplice quanto allarmante: «Il racket è l’essenza stessa della camorra ». Esisterà finché esisteranno i clan, ma allo stesso tempo ogni colpo contro chi taglieggia imprenditori e commercianti sarà un colpo che farà traballare l’intera struttura camorristica, e più si andrà avanti con le denunce e i processi e le condanne, più le cosche di Napoli e della Campania saranno indebolite, perché indebolito sarà il cuore della loro azione: l’attività economica e finanziaria. E allo stesso tempo si potrà risollevare l’imprenditoria della gente perbene: «Chi denuncia lo fa perché è arrivato al limite», aggiunge Roberti. E non è un caso che l’aumento delle denunce coincida anche con un periodo di crisi per l’imprenditoria napoletana. Ma basteranno le denunce a far cambiare strategie ai clan? Roberti dice di no: «Se la camorra è cosa ben diversa da una banda di assassini, è perché tutto nasce da lì, dal racket. L’origine della camorra è quella dell’estorsione organizzata. Tutto il resto è venuto dopo, a cominciare dal traffico di droga, ed è servito per diversificare le attività, cosa che fa ogni azienda per incrementare i propri profitti ». La camorra come azienda che lucra su altre aziende, quindi. Un principio che forse è più facile spiegare in termini economici che giudiziari. «E infatti non avremmo mai capito nulla del nemico che abbiamo di fronte se non avessimo imparato a considerarlo per i suoi rapporti sia economici sia politici. Teniamo in questo caso da parte la politica e concentriamoci sull’aspetto economico dell’organizzazione camorristica. I clan lavorano come un’agenzia di servizi, una finanziaria che ha a disposizione liquidità enormi e può permettersi di erogare sovvenzioni più rapidamente e a condizioni più favorevoli di qualsiasi banca. L’origine delle estorsioni sono i finanziamenti, che possono sembrare l’esatto contrario, ma in realtà non lo sono ». Rappresentano invece, spiega ancora il capo della Dda di Napoli, l’avvio di un percorso che porta inevitabilmente allo strozzamento dell’imprenditore entrato in rapporti con l’organizzazione. «La camorra finanzia, riciclando così i suoi guadagni in attività lecite, e poi campa di rendita su quell’operazione iniziale incassando gli interessi. Soltanto quando la rata non viene pagata, e prima o poi capita, arrivano le bombe e tutto il resto». Visto così il pizzo più che un’imposizione basata su minacce, intimidazioni e ritorsioni contro chi si ribella, pare un dare e avere, uno dei tanti aspetti del mercato. Non è la stessa cosa per tutti, chiarisce Roberti, imprenditori e commercianti costretti a pagare per non subire agguati o attentati ce ne sono e sono tantissimi. Ma, con gli anni, anche i metodi del racket si sono raffinati, oggi i boss hanno al loro servizio consulenti finanziari, oltre che killer e spacciatori, e hanno capito che la collusione può rendere meglio dell’estorsione vecchia maniera. Questo scenario, però, adesso rischia di ritorcersi contro i clan. Perché l’aumento delle denunce sta offrendo alla magistratura un grimaldello per entrare nelle stanze in cui la camorra muove e fa crescere i suoi già enormi capitali. Difficile dire se per indebolire l’organizzazione valga di più sequestrare un carico di droga o ridurne inesorabilmente la possibilità di estorcere denaro alle imprese. Però oggi la camorra vive una stagione di grande sbandamento e a Napoli le denunce contro il racket sono in aumento sensibile e costante: qualcosa significherà pure. Ma come si è arrivati a tutto questo? Si può spiegare solo con l’acqua alla gola dei taglieggiati? Roberti dice che «quando lo Stato dà prova di efficienza, i cittadini se ne accorgono subito, e quindi si fidano e si espongono pure. Aggiungiamoci poi l’importantissimo ruolo che sta avendo l’associazionismo, ed ecco che finalmente i risultati ci sono, ed è lecito sperare che in futuro ce ne possano essere ancora di più». A Napoli l’efficienza dello Stato significa, secondo il procuratore aggiunto, arresti in flagranza dei taglieggiatori, provvedimenti di fermo emessi dalla Procura che poi vengono confermati dal gip, e condanne che arrivano e sono pure pesanti. Nel Paese della giustizia lentissima, sessantuno procedimenti penali in tre anni (di cui 49 conclusi con rinvii a giudizio) non sono pochi. «Certo – dice Roberti – non è facile far condannare per associazione camorristica chi è imputato di estorsione, ma i giudici oggi trattano questo reato con estrema severità. Le sentenze esemplari sono sempre di più». Fulvio Bufi