Vari, 11 dicembre 2007
SEDICESIMO GRUPPO DI ARTICOLI SUL CROLLO IN BORSA COMINCIATO IL NOVE AGOSTO 2007 (GRUPPO AAAJCW, MUTUI SUBPRIME)
LA REPUBBLICA 8/12/2007
LUIGI SPAVENTA
Pericolo Mutui. I titolari di mutui fondiari a tasso variabile, che in un anno hanno visto aumentare il tasso d´interesse di oltre un punto e di quasi mezzo punto negli ultimi cinque mesi e che perciò devono sborsare ogni anno qualche centinaio di euro in più, si pongono le seguenti domande.
Anzitutto, perché il costo dei mutui è aumentato, anche quando le banche centrali mantenevano i tassi ufficiali costanti (nell´area dell´euro) o li riducevano (negli Stati Uniti)? Seconda domanda: si può sperare in una inversione a breve termine di questa tendenza? E infine: la politica economica può con i suoi strumenti offrire qualche rimedio? Temo che le risposte a queste tre domande non siano di grande conforto ai debitori gravati di oneri di interessi crescenti. Servono solo a illustrare la pesantezza della situazione che si è creata quando la crisi acuta provocata dalle insolvenze sui mutui fondiari americani si è trasformata in una pandemia con caratteri cronici.
Il costo dei mutui a tasso variabile è indicizzato non già ai tassi ufficiali o di riferimento annunciati dalle autorità monetarie, ma ai tassi interbancari (solitamente a tre o a sei mesi): quelli che le banche prenditrici di fondi devono pagare alle banche che quei fondi forniscono. In condizioni normali i tassi interbancari si discostano di poco dai tassi ufficiali, e comunque ne seguono le vicende. Ma la normalità è venuta meno dall´inizio dell´estate, quando, in seguito un inasprimento degli episodi di insolvenza negli Stati Uniti, ci si è accorti (gradualmente) che i rischi dei crediti erogati spensieratamente da banche e istituti di credito fondiario e trasformati in prodotti finanziari venduti sul mercato erano tornati almeno per la metà alle banche: con un´esposizione diretta o indiretta e spesso fuori bilancio per centinaia di miliardi di dollari. Quali istituti erano esposti, e per quanto? Nessuno era in grado di saperlo durante l´estate e ancora oggi se ne sa poco, a motivo sia dell´opacità degli strumenti rappresentativi di credito sviluppatisi negli ultimi anni, sia del subitaneo crollo dei prezzi di quegli strumenti, che oggi non trovano compratori, sia dell´opacità dei conti delle banche, che non evidenziavano le esposizioni indirette: istituzioni planetarie come Citi o Merrill Lynch sono state costrette a rivedere al rialzo per cifre ingenti le loro stime iniziali di perdita. Molte banche, in conseguenza, devono far fronte a situazioni di illiquidità, nell´impossibilità di realizzare parte del loro attivo; soprattutto, ciascuna rilutta a prestare alle altre, se non a tassi elevati, nel timore di ritrovarsi in mano il cerino acceso nel caso di difficoltà di una controparte di cui si ignora la situazione effettiva. Le iniezioni di liquidità operate dalla banca centrale americana e da quella europea e la riduzione dei tassi ufficiali decise dalla prima sono servite solo ad alleviare la pressione sui tassi giornalieri, ma non su quelli a meno breve termine. L´aumento dei tassi sui mutui è il prezzo, al dettaglio, di questa diffidenza sistemica.
Se questa tensione possa alleviarsi lo si vedrà meglio a gennaio, superata la sete di liquidità da parte delle banche, che sempre si manifesta a fine anno. Ma la prognosi, allo stato degli atti, non è fausta. L´autorità di vigilanza inglese ha avvertito gli enti erogatori di mutui che le condizioni "resteranno difficili per un periodo sostenuto", "in termini sia di liquidità sia di rischi di credito". In Italia la situazione è meno pesante, perché abbiamo seguito più lentamente il passo dell´innovazione finanziaria, ma non mancano ragioni di preoccupazione: l´aumento del costo dei mutui potrebbe provocare un aumento delle insolvenze; almeno per il momento i crediti che figurano sui libri delle banche non possono più essere ceduti con operazioni di cartolarizzazione; diverrà in conseguenza meno agevole il rispetto dei coefficienti patrimoniali; anche da noi l´erogazione dei mutui fondiari è avvenuta per canali apparentemente esterni al sistema bancario. Comunque, i nostri tassi interbancari non sono certo immuni dalle vicende del mercato globale. In definitiva ci vorrà tempo perché il sistema finanziario, che si era avviato con tanta baldanza verso il nuovo mondo del trasferimento (apparente) del rischio di credito riesca a trovare un nuovo equilibrio.
Le autorità monetarie e di vigilanza hanno armi spuntate. Non furono in grado – e questa è la loro colpa – di comprendere che un rischio crescente si accumulava proprio nel sistema bancario: nel territorio alla cui sorveglianza esse sono deputate. Costrette fra l´altro a navigare fra lo scoglio dell´instabilità finanziaria e quello di un aumento dell´inflazione, esse possono impedire, o alleviare le conseguenze, di episodi acuti di crisi; non di restaurare la normalità con un colpo di bacchetta magica. Nei mercati finanziari l´ingrediente principale della normalità è la fiducia: poco ci vuole a farla venir meno, come abbiamo visto in questi mesi; ci vuole tempo per farla tornare. La nottata potrebbe essere lunga.
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LA REPUBBLICA 09/12/2007
ROSA SERRANO
Caro mutui, il sorpasso è arrivato ora il variabile costa più del fisso. ROMA - E alla fine il sorpasso è arrivato. Il mutuo a tasso variabile costa più del mutuo a tasso fisso. La "valanga" Euribor ha infranto una barriera che finora sembrava praticamente insuperabile: in molti casi, i finanziamenti a tasso variabile offerti in questi giorni dalle banche superano, sia pure di poco, quelli a rata "inchiodata". E per affrontare il problema del caro-rata (che assilla oltre 3 milioni di famiglie), Giulio Tremonti ha presentato ieri un emendamento alla Finanziaria che impone alle banche di offrire ai clienti un piano di ristrutturazione tale da ridurre significativamente l´impatto sulle rate dei rialzi dei tassi di interesse.
Tornando all´Euribor, questo è un tasso di mercato che incorpora stime, previsioni e sentiment degli operatori anticipando, di regola, i movimenti del tasso Bce. In sostanza, chi ha un mutuo a tasso variabile non deve guardare cosa farà la Bce, ma come gli indici Euribor variano sul mercato. L´Euribor 365 a un mese - il parametro utilizzato da circa il 60% delle banche per aggiornare le rate dei mutui a tasso variabile - dopo l´impennata di fine novembre che ha fatto registrare un incremento dello 0,67% (dal 4,22% al 4,89%), ha continuato una lentissima ma, per il momento, inesorabile marcia verso l´alto attestandosi venerdì scorso a quota 4,94%. «Questo sorpasso, sia pure in termini contenuti - spiega Stefano Curti, responsabile prodotti Banca per la Casa - dovrebbe continuare fino a quando non saranno chiusi i bilanci 2007 e si potrà così verificare con puntualità l´impatto della crisi dei mutui subprime sul sistema bancario. Fino a quel momento, quindi, l´attuale trend dell´Euribor non dovrebbe registrare variazioni positive». Sembra, quindi, allontanarsi un rientro immediato dei tassi di interesse interbancari.
Per verificare il differenziale fra tassi fissi e variabili abbiamo ipotizzato un mutuo ventennale di 100.000 euro (valore dell´immobile 200.000) e registrato i valori dei finanziamenti che risultavano ieri sul sito Internet di MutuiOnline. Ipotizzando un mutuo ventennale a tasso variabile di 100.000 euro, il tasso a 1° dicembre 2005 risultava del 2,44% e comportava il pagamento di una rata mensile di 577 euro. Dall´inizio di questo mese, la rata si è notevolmente rafforzata: tasso 4,89% per un importo di 710 euro. Un aumento, quindi, di 133 euro. Va sottolineato che le banche utilizzando diversi parametri di riferimento per aggiornare i mutui a tasso variabile: Euribor a un mese (circa il 60%), a tre mesi (circa il 30%) e a 6 mesi (circa il 10%). A parità di indice, poi, le banche prendono in considerazione quello rilevato a una certa data, mentre altre preferiscono utilizzare la media dei valori di quel mese. «L´impennata dell´Euribor a un mese registrata a fine novembre - spiega Egidio Vacchini, amministratore delegato di Progetica - aggrava la posizione debitoria di quanti vedono questo parametro collegato all´ultimo giorno del mese. Per quelli, invece, che hanno i mutui indicizzati alle medie mensili o ad altre giornate del mese dovremo vedere cosa succederà nel corso del mese di dicembre».
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La Stampa 9 Dicembre 2007
MAURIZIO MOLINARI
Usa, parte il fondo anti-subprime. NEW YORK. Fra 75 e 100 miliardi di dollari: questa è la cifra che puntano a raccogliere da domani le tre maggiori banche americane lanciando il fondo SuperSiv con l’obiettivo di frenare in tempi molto brevi l’impatto della crisi dei mutui subprime sull’economia. Bank of America, Citigroup e JP Morgan Chase avevano iniziato a discutere l’ipotesi del progetto SuperSiv in ottobre, su stimolo del ministro del Tesoro Henry Paulson, e dopo quasi due mesi di difficili negoziati hanno raggiunto l’intesa: tanto sull’ammontare da raccogliere che sull’indicazione della società di gestione BlackRock come manager dell’operazione. Dall’inizio della settimana i tre istituti finanziari metteranno dunque i rispettivi contributi nei forzieri del nuovo SuperSiv e si propongono in questa maniera di innescare un effetto-domino per raccoglierne altri dai propri clienti, presso i quali l’indicazione del BlackRock è mirata ad essere una garanzia di credibilità. «Sono fra i migliori gestori di fondi in circolazione» riassume Robert Smith, analista della banca di investimento Fox-Pitt Kelton di New York. Ma l’opinione degli operatori non è unanime. Altri operatori di Wall Street ritengono, come nel caso di Josh Rosner di Graham Fisher, che aver affidato la gestione a BlackRock servirà a poco perché «questa è un’operazione voluta dalle banche anzitutto per salvare se stesse» dalle conseguenze dell’estrema facilità con cui si sono indebitate negli ultimi anni. Difficile dunque immaginare che altri vogliano aiutarle a cuor leggero.
Da un punto di vista tecnico il fondo SuperSiv viene creato con il fine di acquistare i veicoli di investimento nella finanziari strutturata (Siv) che altrimenti sarebbero obbligati a svendere i propri 300 miliardi di dollari di proprietà per fare fronte ai pesanti debiti che sono stati causati dalla crisi dei mutui subprime. Se l’operazione riuscirà il salvataggio finanziario dei Siv avrà effetti a pioggia, disinnescando il rischio di un’implosione dei maggiori istituti bancari. L’intenzione di Henry Paulson è dunque di andare all’origine del problema dei suprime, arginando il pericoloso processo finanziario che rischia - secondo alcune previsioni economiche - di avere serie ripercussioni nel 2008 sui consumi dei cittadini, dai quali dipende circa il 70 per cento dei pil nazionale. Non è un caso che il lancio del SuperSiv segue di pochi giorni il varo del piano della Casa Bianca per il congelamento quinquennale dei tassi dei mutui variabili delle famiglie che si trovano in maggiore difficoltà nel fare fronte ai pagamenti. La simultaneità fra le due iniziative punta a rassicurare i mercati sulla determinazione del governo a operare assieme ai privati a Wall Street per allontanare lo spettro di una crisi che potrebbe innescare la recessione nel bel mezzo dell’anno elettorale.
Molto dipenderà tuttavia dal risultato della raccolta fondi perché la strategia della Bank of America, che guida il SuperSiv, è di acquistare i Siv (Special Investment Vehicle) in difficoltà per sostenerne i prezzi ed evitarne il collasso a seguito degli investimenti fatti in titoli garantiti da mutui ad alto rischio come i subprime. Il timore che accomuna governo e istituti bancari è una corsa al ribasso dei prezzi dei Siv, che potrebbe avere effetti disastrosi per via del boomerang sulle stesse banche: basti pensare che Citigroup gestisce Siv esposti per 64,9 miliardi di dollari mentre Moody’s sostiene che i Siv a rischio superano quota 100 miliardi. Saranno le prossime settimane a suggerire se il SuperSiv è la carta giusta per evitare il peggio a Wall Street: fra i dubbiosi c’è il quotidiano londinese Financial Times secondo il quale «il piano non serve a molto» in quanto le regole che le tre banche si sono date prevedono la possibilità di acquisto di titoli con un rating elevato e non quelli più rischiosi.
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IL FOGLIO 11/12/2007
STEFANO FELTRI
Milano. Di solito per spiegare la globalizzazione finanziaria si parla dell’effetto farfalla. Il battito d’ali di una farfalla in Cina provoca un uragano in Texas. Ma vale anche il contrario: l’uragano scatenato dai mutui subprime negli Usa rischia di spezzare le ali di quattro farfalle norvegesi, Narvik, Hemnes, Rana e Hattfjelldal, poco più che villaggi a duecento chilometri dal circolo polare artico. La vicenda, riportata dal Financial Times nei giorni scorsi, è questa: le quattro cittadine hanno affidato i propri risparmi, 96 milioni di dollari, a Terra Securities, la banca d’investimento di uno dei più importanti gruppi bancari norvegesi, che in cambio ha venduto dei sofisticati titoli derivati il cui andamento è legato a imprecisati bond municipali emessi da città americane. Complicato? Sicuramente troppo per il sindaco di Narvik e per i suoi colleghi, anche perché, così denunciano loro, la versione in norvegese del documento sui rischi del prodotto finanziario era molto più rassicurante di quella in inglese, che invece spiegava la natura speculativa di quei derivati. La crisi dei mutui subprime e i suoi effetti a cascata hanno fatto crollare il valore dei titoli nel portafoglio dei quattro comuni, che ora annunciano di non essere in grado di pagare gli stipendi di dicembre. Anche se la situazione è ”difficile ma non tragica”, secondo un amministratore locale. I cinici diranno che la colpa è degli sprovveduti funzionari del comune che non hanno valutato bene l’investimento e ora pagano le giuste conseguenze della propria avventatezza. Ma non la pensa così l’autorità di vigilanza dei mercati finanziari norvegese che, un po’ più risoluta delle nostre Consob e Banca d’Italia, ha revocato la licenza a Terra Securities, che di conseguenza ha dichiarato fallimento, e il boss di Terra Group è stato costretto alle dimissioni, dopo aver ammesso che ci sono stati ”palesi errori” nella vendita di quei prodotti truffa ai comuni.
Proprio un altro paese. In Italia, invece, gli enti locali continuano a essere facile preda delle banche che riescono a fare profitti quasi sicuri sfruttando l’avventurismo e le scarse conoscenze finanziarie di molti dirigenti amministrativi. ”Alla fine di agosto il debito degli enti locali per operazioni in derivati verso le banche italiane era pari a un miliardo di euro a valori di mercato. Ma poiché gli enti più grandi ricorrono spesso a intermediari esteri, questo valore di certo sottostima il fenomeno”, denunciava il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi alla fine d’ottobre, in occasione della giornata mondiale del risparmio, e avvertiva: ”Da tempo la vigilanza ha richiamato le banche al rispetto delle norme che regolano le operazioni con gli enti locali e che consentono l’uso dei derivati solo per proteggersi dai rischi e non per migliorare temporaneamente i flussi di cassa, addossando gli oneri alle amministrazioni future”.
Ma, nonostante i richiami, le banche non hanno saputo resistere alla tentazione di un guadagno facile a spese di comuni grandi e piccoli. Da Milano a Roma, da Torino alla regione Lazio, fino all’ultimo dei comuni calabresi, un po’ tutte le amministrazioni locali si sono avventurate negli ultimi anni nel mondo della finanza più sofisticata, quella dei derivati e degli swap. L’idea di per sé è abbastanza semplice: un comune ha un certo debito, con un tasso di interesse fisso (fino a pochi anni fa gli enti locali si potevano indebitare solo presso la Cassa depositi e prestiti a tasso fisso) ma, per varie ragioni, può trovare conveniente ”rimodulare” il debito. Per esempio, all’inizio degli anni Duemila, i tassi di interesse erano in discesa e così molti comuni hanno cercato di sfruttare questo trend, passando dal tasso fisso sui propri debiti a uno variabile. E qui arriva la parte complicata: il modo per farlo si chiama IRS, Interest Rate Swap. In pratica il comune acquista uno strumento finanziario derivato (il cui andamento dipende cioè da altri parametri) che, a seconda di quale sia più conveniente, rende il tasso fisso o variabile. Il problema è che si tratta di un azzardo, una scommessa, e il rischio deve essere proporzionato a quello che il comune può e vuole sostenere, calcolato sulla base di stime attendibili di come andrà il mercato.
Ma come in Norvegia, quasi tutti i comuni e le regioni italiane che hanno scommesso hanno anche perso, e visto che il gioco degli Swap è a somma zero, a guadagnarci sono state solo le banche. Ci sono altri casi paragonabili. Anche Florida e Montana faticheranno a pagare gli stipendi di dicembre, perché i fondi in cui avevano investito sono stati congelati perché troppo esposti ai titoli legati ai subprime e quindi a rischio perdite. Qualche anno fa, nel 1991, coi derivati si era scottata anche la municipalità di Hammersmith, Londra, che arrivò al fallimento per aver speculato troppo con prodotti sofisticati (che poi le furono vietati) con perdite di 200 milioni di sterline. Nessuno dei comuni italiani rischia di fare la fine di Navrik o di Hammersmith, ma anche qui da noi ci sono storie a rischio.
Si va dalla regione Calabria che ha affidato la ristrutturazione del proprio debito alla banca giapponese Nomura regalandole di fatto un guadagno di 25 milioni di euro, secondo i calcoli di una banca concorrente (Barclays) che ha denunciato lo scandalo. A Milano continua da mesi la polemica tra maggioranza e opposizione per un’operazione di swap sul debito decisa dalla giunta guidata all’epoca da Gabriele Albertini che nel 2005 cercò di ristrutturare il debito dell’amministrazione in modo da sfruttare i tassi in discesa. ”A oggi il comune risulterebbe in attivo per 3,6 milioni”, spiega un documento diffuso dall’amministrazione nei giorni scorsi, ma non tutti sono d’accordo, anche perché una delle maggiori difficoltà dei derivati sta proprio nella loro scarsa trasparenza: l’ex ministro dell’Economia Domenico Siniscalco confessò una volta ”io stesso ho difficoltà a leggere e capire questo tipo di contratti”.
Dopo la puntata di ”Report” dedicata al tema (che ha causato qualche problema di immagine e di borsa a una delle banche che fatto più affari con i comuni, Unicredit) anche a Canneto sull’Oglio, 4500 abitanti in provincia di Mantova, hanno scoperto di essere entrati nel club dei derivati. La vecchia giunta aveva scommesso su una riduzione dei tassi di interesse nel 2004, stipulando due contratti derivati che ora, ritrovati in un cassetto dalla nuova amministrazione, potrebbero costare alle casse comunali 56 mila euro. Ma non si ha notizia di soluzioni alla norvegese, nessun dirigente di banca rischia il posto per aver fatto profitti a spese dei contribuenti. L’Anci, l’associazione dei comuni italiani, annuncia di voler creare un gruppo tecnico di supporto ai piccoli enti locali nella gestione degli swap, mentre la Finanziaria 2008 propone un nuovo regolamento per le operazioni di finanza creativa di comuni e regioni. Secondo le nuove regole, ora in discussione alla camera, il ministero dell’Economia non si limiterà più a ricevere la copia del contratto con cui un’amministrazione acquista uno strumento derivato, ma dovrà verificarne la conformità a criteri di trasparenza e la consapevolezza dell’ente locale coinvolto nell’operazione. Se l’articolo 10-bis della Finanziaria arriverà indenne al traguardo, le regioni verranno classificate automaticamente come ”clienti professionali”, così come i grandi comuni con entrate minime di 40 milioni e operazioni finanziarie per 100 milioni nell’ultimo anno, secondo categorie previste dalla direttiva europea Mifid, che stabilisce tutele diverse per gli investitori a seconda delle loro caratteristiche (i ”professionali” sono quelli in grado di assumere rischi maggiori). Ma, nell’attesa che dall’alto si decida come limitare i danni causati dalla disinvoltura finanziaria di qualche assessore al bilancio (che poi recupera le perdite aumentando l’Ici), i nostri enti locali continuano a essere celebri nella City londinese, cuore dell’Europa finanziaria e bancaria. Come polli da spennare, si dice, non li batte nessuno.
Stefano Feltri
CORRIERE DELLA SERA 13/12/2007
FEDERICO FUBINI
MILANO – Appariva quasi impensabile pochi mesi fa, ora è l’agenda di lavoro della settimana prossima. Con un’azione azzardata solo dopo l’11 settembre, i banchieri centrali delle grandi economie globali si muovono insieme per sedare la psicosi da mutui che congela da mesi i canali del credito.
Da ieri la Banca centrale europea e quella svizzera hanno l’assenso della Federal Reserve per prestare decine di miliardi di dollari, non più solo euro o franchi, agli istituti di questa parte dell’Oceano. La Banca d’Inghilterra, inflessibile fino all’autunno, in cambio delle sue sterline ora invece accetterà ciò chiunque altro rifiuta: titoli in dollari garantiti dai mutui o persino dall’esposizione delle famiglie americane sulle carte di credito. E anche la Banca del Canada apre nuovi rubinetti, in parallelo alla Fed.
stata in realtà la banca centrale americana a chiedere alle altre di agire in modo coordinato per iniettare liquidità, anche perché il piano era pronto da tempo. A Washington fin dall’estate correva la tentazione di una linea di «swap» valutario con la Bce, ossia un accordo perché l’Eurotower svolgesse in Europa il lavoro della Fed: prestare dollari alle banche tedesche, italiane o francesi ai tassi d’interesse americani, dietro l’impegno di Washington di coprire eventuali perdite sul cambio. Molto probabilmente l’intesa è emersa solo ieri per tenerla distinta dal taglio dei tassi americani del giorno prima, ma era formalmente decisa almeno da una settimana. Non si è trattato dunque di una reazione d’istinto alle cadute dei mercati delle ultime ore, eppure le paure che le banche centrali cercano di affrontare sono sempre le stesse: con perdite sui mutui americani nascoste da qualche parte per almeno 200 miliardi di dollari, le banche private diffidano le une delle altre e si prestano denaro solo a caro prezzo, anche ora che tutti ne hanno bisogno per chiudere i conti annuali. Ne risultano interessi di mercato astronomici (4,9% a un mese in Eurolandia, contro il 4,1% di due settimane fa) e una stretta al credito che a sua volta piega le Borse.
Su questo sfondo, nota Marco Annunziata di Unicredit, ieri è arrivato «uno choc di adrenalina». A due riprese, lunedì e giovedì prossimi, la Fed lancerà aste di liquidità da 20 miliardi di dollari l’una a condizioni favorevoli. Negli stessi giorni anche la Bce metterà a disposizione delle banche europee dollari per altri 20 miliardi in totale, mentre la Banca nazionale svizzera ne offrirà quattro. Non è del resto un caso che Berna sia fra le capitali coinvolte, dopo i 14 miliardi di svalutazioni registrati da Ubs sui mutui «subprime ». Resta invece fuori dall’accordo la banca centrale di Tokyo, convinta che gli istituti giapponesi non abbiano gravi problemi a approvvigionarsi di dollari. Per la Banca d’Inghilterra invece la sterzata è ormai completata: all’inizio della crisi in agosto era disposta a prestare agli istituti di Londra solo a tassi punitivi; la settimana prossima invece lancerà un’asta straordinaria da 11 miliardi di sterline in cambio di deboli garanzie, mentre il governatore Mervyn King spera in un rinnovo del suo mandato nel 2008.
A differenza di martedì, quando la Fed ha deluso con la sua cautela sui tassi, ieri i mercati hanno ritrovato fiducia: i tassi di mercato di Londra sono scesi e il Dow Jones ha chiuso positivo (più 0,32%), benché il deficit commerciale Usa sia salito a ottobre con il dollaro ai minimi.