Guido Ceronetti, La Stampa 11/12/2007, 11 dicembre 2007
PARIGI
Peter Brook ha rappresentato, nel secolo XX appena sfuggito alle maglie del Visibile – insieme a qualche attore e altre rare figure della grande regia, l’espressione teatrale. Credo sia l’unico ad aver esteso al di là dei confini del nostro dilavato Occidente il suo lavoro estrattivo, per fini di scoperta e riossigenazione, in spazi vergini, di motivi e personaggi per la scena (Iran, India, Africa subsahariana) – e tuttavia, la sua navicella non ha mai tolto le àncore dal Tamigi e dall’Avon: è il più scespiriano dei registi di Shakespeare, dal quale è partita la sua carriera elisabettiana (Marlowe, Doctor Faustus, 1942; fa Re Giovanni nel 1945; Misura per misura nel 1950; Titus Andronicus nel 1955, il suo primo Amleto nel 1955; La Tempesta nel 1957; ruota attorno a King Lear fino al 1970). Da soli diciassette anni a tutt’oggi, dai bombardamenti su Londra al dopo Torri Gemelle: tutta una grande drammaturgia di opposizione strenua alle assedianti sinistre stelle delle tenebre e della morte.
Ed è un bagno di salute mentale e teatrale ascoltarlo, e leggerlo nei saggi e nelle interviste, bevendo insieme tè bianco cinese nel suo atelier di Parigi, piazza della Bastiglia, dove in giorni di gelo e sciopero e ingorghi, mi ha antieroicamente e febbricitante deposto dalla cesta una mongolfiera crumira.
In questa lunga teatrografia e film-grafia c’è un punto di vuoto. Cercheresti invano, in quasi cinquant’anni, una regia brookiana di Macbeth. Fondamentale, e assente! (Questo testo, a me, è dei più congeniali).
«Perché io sono superstizioso! Questa pièce, nel teatro inglese, non viene neppure nominata. Il teatro di Stratford mi aveva invitato a metterlo in scena: si ebbe un rifiuto. Il direttore voleva sapere se non mi piacevano gli attori... La verità è che da quando sono nel teatro, quando si trattava di questo ho rifiutato sempre... Uno si azzoppa cadendo, l’altro cadeva dal praticabile... A Paul Scofield, deciso a provarci, avevo detto di stare attento, e dopo le prime prove si scoprì affetto, dal volto ai piedi, di un Erpes Zoster dei più micidiali. Finì tutto male...».
Da noi, invece, è temuta dai cantanti-attori «La forza del Destino», di Verdi. Due parole e subito lasciamo, nel buio dell’intoccabilità, la pièce dannata... Dal regno ctonio sorgono ambigui, i colpi battuti alla porta di Macbeth? Quale significato attribuirgli? Thomas De Quincey ne dà una spiegazione che non persuade...
evidente che questi argomenti Peter Brook è imbarazzato a trattarli.
«In Shakespeare è inutile cercare ad ogni costo quel che ha voluto dire, e tutte le interpretazioni restano aperte. Nella sua scrittura così precisa, il campo è lasciato a tutte le ipotesi. Vedi Amleto, emblematico... Lavorandoci, il regista sente che non è, teatralmente, strutturato bene, e il suo essere stato fatto su un testo precedente e su ordinazione».
Altro intoppo... Amleto rispecchia i pentimenti e i tormenti di Elisabetta... Identificando nella Gertrude madre di Amleto la Maria Stuart di Scozia, Shakespeare rischiava di sdrucciolare: se l’è cavata brillantemente piegando Amleto ai moniti del Fantasma: «non far del male a tua madre». la nota tesi di Carl Schmitt... E in Amleto abbondano le uccisioni (il finale è una macelleria umana) ma l’elemento tragico, il «Tragisch» puro, è debole – così a me pare.
« esattamente quel che ho sentito io – perché si tratta di un rifacimento. Shakespeare ha creato un personaggio talmente aperto e infissabile che se ne possono dare in ogni epoca milioni di interpretazioni differenti, senza poterne catturare l’essenza».
Questo isolamento di Amleto nei suoi dubbi su realtà e affidabilità dello Spettro, lo libererebbe però, in parte, da uno molto più trafiggente: mia madre è colpevole di complicità con l’assassino di mio padre? Dovrei uccidere anche lei, forse, se la vendetta di sangue è vera, ma il Ghost mi dice che non devo far nulla contro di lei. Solo parole... E con questo Amleto sceglie di crivellarla – di lutto perché l’ama ben più di Ofelia – e traboccanti di passione gelosa, capace di arrivare ad uccidere, sostitutivamente, Polonio. Questo rimanderebbe con forza al contesto storico.
«Vero, sì, ma il nodo non è qui. Io non ho voluto tener conto dell’aggrovigliato retroterra di allusioni e congetture politiche cortigiane militari religiose metafisiche, e per questo in Inghilterra sono stato molto criticato – perché ormai tutto è politicizzato – ma guardandolo da vicino bene. E tutto Amleto ruota attorno al suo dubbio circa l’uccidere lo zio per comando dello Spettro – ma questo CHI è davvero? Da dove viene? La vendetta di sangue andava sparendo dagli usi aristocratici. Crede allo Spettro come realtà ma dubita della sua identità e delle sue parole... Amava o no incestuosamente la madre? La vedeva come un essere innocente che pecca o come un essere mostruoso? Tutto questo è come il senso di quei colpi battuti al portone di Inverness: i colpi battuti importano ben più del loro significato. Perché Shakespeare ci abbandona al nostro credere qualsiasi cosa. Ma se i più degli spettatori non ne fossero persuasi, vorrebbe dire che abbiamo sbagliato nell’interpretare Shakespeare!»
Lei sarà a Milano, al «Piccolo», in dicembre. Che cosa porterà?
«Beckett».
Di Beckett che cosa farete?
«Lo spettacolo s’intitola Fragments: pièces minuscole con tre personaggi».
Quale consolazione può dare il teatro, oggi, a una umanità che ha ricevuto il trauma dell’undici settembre e che va verso la fine dell’abitabilità del pianeta? Si può fare ancora qualcosa, dare qualcosa?
«Il teatro, da quando ci sono la televisione e Internet, ci ha indubbiamente guadagnato molto. Trenta, quaranta anni fa si diceva ancora che il teatro – il grande Teatro – non era fatto per tutti, e che era soltanto per le élites: ma oggi che masse sterminate d’uomini, donne, bambini possono godere, senza interruzione, mediante televisione e Internet, di qualche spettacolo, allora il teatro può rivolgersi a pubblici in grado di comprenderlo a fondo».
Io adesso ho ottant’anni, perché sono nato nel 1927. Lei è del 1925. Come giudica, come sopporta, o sormonta, questa nostra lunga, eccessivamente lunga, innaturale vecchiaia?
«Pensandoci il meno possibile».
Lei la combatte lavorando: pensarci è inevitabile, perché «si è pensati» dalla vecchiaia, strega crudele e abietta – e sborniarsi di lavoro è tra i modi di salvezza che Baudelaire addita nello «Spleen de Paris». Ma lui ci mette anche il vino... Un pensiero suo su Lear può essere un bel modo per accomiatarci. Mi scuso per le mie domande alquanto fiacche ma riflettono esattamente il mio stato fisico in questo mio non esaltante periodo. Domani vorrei visitare il suo teatro delle Bouffes du Nord, mi aspetta Nina Soufy.
«La prima volta che ho messo in scena il King Lear, a Stratford, nel 1962, lo paragonai al Monte Everest, dove su ogni tratto di salita fossero ammucchiati i corpi morti di quelli che non erano riusciti ad arrivare alla vetta».
(Pensiero mio inespresso). Ho l’impressione, nell’accomiatarmi da lui, che Qualcuno, sempre il medesimo, nonostante tanto e tanto teatro fatto in Asia e Africa, DIRIGA dal mondo dell’Occulto, e ri-attiri a sé sempre, Peter Brook, con mani d’ironia e infallibilità. Qualunque ne sia il ritratto, secondo gli eruditi, che ne riaffiora nel crepuscolo del Visibile, certamente si tratta di William Shakespeare.