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 2007  dicembre 11 Martedì calendario

SERIE DI PEZZI SULLA SATIRA IN MARGINE AL CASO LUTTAZZI-FERRARA PUBBLICATI DA REPUBBLICA L’11/12


ADRIANO SOFRI
Io non ho niente contro gli autori di satira, purché non vengano a portare via il lavoro a noi italiani. Diranno: io faccio satira, posso dire le parolacce. Perché, io no? E comunque, che possa o no, conoscete un italiano che non le dica? Solo, non siamo pagati.
Nell´ultimo numero di Tango c´era, su una saracinesca abbassata, il cartello: "Chiuso per stanca", e il titolo: "Per colpa di qualcuno / non si fa satira a nessuno". Si torna allo stesso punto: lo statuto speciale della satira, la satira dev´essere cattiva se no che satira è, alla satira non si possono imporre limiti, è satira o non è satira? Chissà che non convenga rinunciare a questa specializzazione, o almeno attenuarla un po´. La satira non è più un genere speciale, con le sue peculiari leggi e la sua singolare immunità, ammesso che lo sia stata. Se eccede, si dice, non fa che il suo dovere. "coraggiosa". Ma anche questa è una medaglia alla memoria, del tempo e dei luoghi (ce ne sono ancora, in una vasta parte della terra) in cui dire la verità o spogliare il potere costa frustate, galera, esilio. Da noi, nei casi più deplorevoli, costa il passaggio da una rete all´altra, da un editore all´altro, da una televisione a un teatro. Ci vuole coraggio, ma non tantissimo. E quanto a eccedere, eccedono tutti. Una volta c´era il carnevale, c´era Pasquino, c´erano le cappelle di certe chiese lungimiranti lasciate nude con l´invito a imbrattarne i muri, per favore, e lasciare in pace le altre con gli affreschi di Pinturicchio. C´erano le pareti dei cessi, che garantivano il tempo e l´extraterritorialità sufficienti a depositare scritte e disegnini e uscire abbottonandosi la faccia. C´era Radio radicale che apriva i microfoni, e apriti cielo. Si discute degli anni Settanta: bene, un modo per ricostruirli è che furono il decennio in cui per la prima volta qualcuno (un gran signore, Cesare Zavattini) disse: cazzo! alla radio. Trent´anni fa, trentamila. Oggi vi dicono: cazzo! anche al segnale orario.
Che genere espressivo o artistico speciale è la satira, a questo punto? Si distingueva dai romanzi rosa, perché parlava di sesso orale, e quelli di apostrofi rosa: ora un romanzo rosa conta undici episodi di sesso orale per pagina. Per giunta c´è una gran confusione fra sesso orale e sesso verbale: la verbalizzazione del sesso è anche lei sfuggita a ogni delimitazione di genere. In generale, c´è una bella differenza fra chi sta composto, come Luttazzi, e chi parla le cose col corpo, come il sommo Dario Fo e poi i grandi come Benigni o Paolo Hendel. Quella di Luttazzi è coprolalia, lui dice cacca da fermo, Hendel la dice meno di quanto la faccia. Non è un caso che anche Luttazzi sia passato, a suo tempo, dal dire al fare, nell´indimenticato episodio di coprofagia.
Insomma, ancora al tempo del Pci, fu un´incauta autorizzazione alla satira annessa all´Unità a far crollare il muro. Fu davvero una risata a seppellirlo, rigido com´era. Ma ora! Dai blog agli striscioni degli stadi, non c´è niente che non si possa dire, che non sia stato detto. Dunque non si potrà più rivendicare a un ordine professionale di satirici uno speciale statuto, un´esenzione, un numero chiuso, come a tassisti e dentisti. Del resto la satira se l´è cercata. Quando la politica aveva già il respiro corto, e il fiato della magistratura sul collo (anch´essa non aliena da manifestazioni soggettivamente e oggettivamente satiriche) la satira di professione se ne prese la supplenza, e poi, siccome l´appetito vien mangiando, ne diventò concorrente e rivale, e oggi politica e satira colluttano in una universale invasione di campo, parolacce di politici e comiziacci di satirici, ognuno pretendendo una propria immunità. La questione sarà dunque sottratta ai galatei di genere, e ridotta a quello che si dice e come lo si dice, e del codice penale da una parte e dell´opinione pubblica dall´altra. Finalmente, direte voi: è solo questione di volgarità. Proprio così, ma non come vorreste immaginare. Infatti, se la satira è abbastanza superflua e noiosa da definire (va bene: castigat ridendo mores, lo dice la Cassazione), definire la volgarità è invece cimento affascinante e arduo. E non è affatto fuori tema, perché la volgarità in sopraddose è una pozione letale per lo sguardo satirico, ma al dosaggio giusto è la sua bevanda magica. Che cos´è dunque la volgarità?
Sono venuto a capo per darvi il tempo di sorprendervi e riflettere, e per prendermi il tempo necessario ad attutire la delusione della mia risposta: e chi lo sa! Se non vi accontentiate di definizioni da bon ton, o del dizionario dei sinonimi e dei contrari (Sinonimi: fango, licenziosità, parolaccia, sporcizia, turpiloquio, grossolanità, materialità, oscenità, sconcezza, scurrilità, rozzezza, porcheria, cafonaggine, villania, impudicizia, schifo, bassezza, pacchianeria, trivialità, sguaiataggine, indecenza, scabrosità, cafonata Vedi anche: immoralità, brutta parola, barbarie, ignoranza, cacca, cazzata, stronzata, vergogna, umiltà. Contrari: compostezza, cortesia, creanza, finezza, nobiltà, rispetto, signorilità, stile Vedi anche contegno, decoro, dignità, grazia, modestia, diplomazia, fair play, savoir faire, bel modo, bel tratto, belle maniere, correttezza, educazione, garbo, urbanità, buon gusto, eleganza, raffinatezza, squisitezza, classe, distinzione, discrezione, tatto, delicatezza) non vi sarà facile venirne a capo. Che viviamo in un´epoca volgare - fottutamente volgare, diciamo - è indubbio, ma quando cerchiamo di spiegare perché, rischiamo di accontentarci di sintomi - per esempio, tutte le scolare di quarta sull´autobus 37 dicono: Cazzo! - o tutt´al più di prendercela con la democrazia, prima della quale ognuno stava al proprio posto. Non è un caso che la Chiesa della Restaurazione tenti il ritorno al latino, espediente di ripudio del volgare. Quando cerco di orientarmi, mi affido alla sicurezza di ciò che non è volgare - Rita Levi Montalcini non è volgare - e di ciò che lo è senz´altro, a qualche scranno di distanza. Ma poiché è dentro se stessi che bisogna alla fine cercare, tendo a pensare, sulla scorta della mia intima e prepotente volgarità, che la volgarità abbia a che fare con un talento mimetico, con la capacità di immedesimarsi negli altri, e precisamente con ciò che negli altri è più basso e vile. Mi pare che questo spieghi una circostanza decisiva come la distinzione, e in qualche caso la contrapposizione, fra la miseria di vite personali e la grandezza di pensieri e opere. Nelle persone non volgari vita e opera tendono a coincidere. Il contrario succede alle persone volgari. C´è dunque nella volgarità una forza grandiosa e trascinante, e sia pure trascinante verso il basso. Il limite che, anche nella più ammirata considerazione, si continua ad avvertire nei Promessi sposi è in un difetto di volgarità di Alessandro Manzoni. Quel limite non si avverte in Balzac, e nemmeno in Altan. Se mi chiedeste da che cosa deriva una così ineguale distribuzione di volgarità, in attesa che la neurobiologia la calcoli fino all´ultimo gene, non saprei invocare altro che la varietà di vicende d´infanzia e di adolescenza. Con quale penetrazione si sia sentito il modo d´essere altrui, e con quanta indulgenza e temerarietà ci si sia spinti all´imitazione degli altri, per trionfare di loro.
Volgarità è forse, nella vita quotidiana come nella corporazione dei satirici, l´impulso a conquistare gli altri passando per il loro lato più debole e meschino. C´è una grandezza in tutto questo: si può avere un record di audience, scrivere La fiera delle Vanità, diventare capipopolo e, nella più felice delle ipotesi, dittatori sanguinari. Mi avvio alla conclusione: dal buon uso della volgarità dipende il saggio medio di civiltà di una comunità, della sua esistenza ordinaria e della sua satira televisiva. Oggi l´inflazione della volgarità, cioè il suo abuso - una volgarità dilagata in superficie, senza profondità - sommerge vita quotidiana e satira professionale.
Io non ho niente contro gli ebrei, ho anche un amico gay, e una volta ho fatto un viaggio in treno con un negro. Non ho niente neanche contro gli italiani, purché non vengano a portare via il lavoro a noi autori di satira.

MICHELE SERRA
La domanda se esistano i famosi "limiti della satira", dettati da qualche autorità non ancora identificata oppure autoimposti, è tanto vecchia quanto irrisolta. Tanto che possiamo ben dire che no, non esistono limiti codificati o codificabili. Mutano e si spostano tanto quanto i "limiti del pudore", che assecondano oppure contraddicono le sensibilità sociali e individuali, i tabù di gruppo e di casta, le suscettibilità culturali, politiche e religiose.
Ciò che diverte qualcuno offende altri. E rispetto a svariate e delicate faccende di interesse pubblico, l´eterno dibattito è tra chi ritiene improprio e volgare parlarne con i piedi nel piatto, e al contrario chi considera scandaloso e vigliacco non farlo...
Saremmo, dunque, tipicamente nel campo del relativismo etico. Ognuno si arrangia e giudica, lungo il confine sempre labile (cioè: labile da sempre) che separa il dileggio dalla diffamazione, l´acutezza critica dall´oltraggio insopportabile. Lo slogan coniato da Sergio Staino quando, nel mezzo della chiesa sconsacrata del comunismo italiano, fondò Tango, era «chi si incazza è perduto». Metteva l´accento sulla cattiva coscienza delle parti offese: la lingua batte dove il dente duole, e se si sente uno strillo significa che la lingua della satira ha colpito bene.
Eppure, per consolidata esperienza, possiamo ben dire che un potere tetragono e furbo (Andreotti, per esempio) ha sempre saputo dare prova di una formidabile impermeabilità: non incazzandosi mai, lasciando dire. Viceversa dimostrarono la loro vulnerabilità alla satira, lamentandosene a voce troppo alta, uomini pubblici meno scafati o tolleranti ma anche, evidentemente, meno disposti a passare da furbi, vedi Enrico Berlinguer. Questo dimostra che la sola reazione dei bersagli, il loro abbozzare da uomini di mondo oppure reagire malamente, non basta, in sé, a valutare né l´efficacia né il valore della satira.
C´è chi si imbufalisce per pura permalosità, e presunzione di impunità, e al contrario chi reagisce per amor proprio e perfino per ingenuità (categoria, quest´ultima, che non mi sentirei mai di classificare tra i difetti di alcuno, potente oppure no). Il potere ha faccia di bronzo ma ha anche viscere e passione. Ha buoni avvocati ma nessuna garanzia sulle sentenze. E se sei un suo avversario, e vuoi batterti con lui, non è sagace e in fin dei conti neanche morale pretendere che il potere ti affronti con le mani legate dietro la schiena.
E dunque, alle strette: il satirico - come ogni artista - è fondamentalmente solo con il suo talento e la sua responsabilità. Deve spesso guardarsi, non c´è dubbio, dalle censure, dalle querele, dalle viltà editoriali. Ma passare guai giudiziari o patire ostracismi non è - come dire - la parte fondamentale del suo lavoro. La parte fondamentale, e la più difficile, sta nel non farsi condizionare oppure dirottare dall´ossessione tipica del suo mestiere, che è fidarsi troppo dell´"effetto che fa". Molti (troppi) satirici basano la coscienza di sé, la propria autostima, sull´aura di martirio che gli tocca subire (o che riescono a procurarsi). Il livello dello scandalo, però, non è sempre un buon giudice della forza della satira. Giovannino Guareschi, che fu un ottimo romanziere popolare e un notevolissimo autore di storie e vignette satiriche, finì in galera per un suo improvvido e maldestro attacco giornalistico a De Gasperi, e se ancora oggi tocca dolersene, non fu certo quel goffo infortunio a costruire la grandezza di Guareschi. Anzi: fu una vicenda che ne sottolineò inutilmente la faziosità, e ne mortificò il valore.
Allo stesso modo, oggi, dispiace vedere un talento assoluto come Daniele Luttazzi alle prese con una sorta di sfida cieca, e all´ultimo sangue, non con i "limiti della satira", ma con una propria idea di intemerata purezza che finisce per essere ideologica e non più artistica. Con il faticoso corollario, ben noto nella conventicola dei satirici e dei comici, di considerare deboli, prone al potere e compromesse con il sistema tutte o quasi le altre voci in campo, forse colpevoli "di non farsi censurare" come dovrebbe, secondo questo schema tragicamente masochista, ogni persona "veramente libera".
Ma le stimmate della purezza dovrebbero essere bandite da ogni dibattito, e in particolare da un dibattito sul linguaggio artistico, che è spurio, "sporco", contaminato e imperfetto come ogni intenzione umana quando si fa linguaggio.
Ci sono eccellenti satirici che considerano la navigazione tra querele e polemiche come il classico incerto del mestiere, e non se ne lamentano più del dovuto non perché abbiano il culo al caldo, ma perché sanno che lavorando sul limite può anche capitare di finire in fuorigioco. E ce ne sono altri che pur essendo di potentissima presa, e antica popolarità (Altan, Vauro, Benni, Paolo Rossi, Dario Fo, Paolo Poli, per fare i primi nomi che mi vengono in mente) sono nelle condizioni di fare bilanci professionali con i lettori, e con se stessi, ben prima che con gli avvocati.
Dire che l´osceno e il volgare sono categorie ampiamente diffuse soprattutto fuori dalla satira, per esempio nella programmazione "per famiglie" delle reti private e pubbliche, è dire la pura verità. Ma questa verità non può mai costituire un alibi per il satirico: il solo fatto che egli maneggi opinioni e linguaggi di frontiera, mai benedetti dal conformismo, spesso disturbanti per il pubblico "benpensante", gli impone un rigore particolare, un continuo vaglio della precisione e della difendibilità del suo lavoro. Non parlo, sia ben chiaro, della difendibilità giudiziaria: quella è troppo esposta all´arbitrio altrui. Parlo della difendibilità semantica, della caratura artistica e del calibro delle parole. Dei conti con se stessi, insomma...
Il satirico mette continuamente le mani nello scandalo e nel dolore, scandalo suo e scandalo altrui, dolore suo e dolore altrui. Parla di uomini, di persone, ne scruta i tratti e li deforma, lavora sull´errore, sulla frustrazione, sulla degenerazione (comica) della figura umana. Deve avere l´umiltà di sapere che alla massima efficacia spesso corrisponde il massimo rischio, che è per questo che il pubblico lo ama e lo cerca, ma è anche per questo che a volte lo aizza al di fuori della misura necessaria: che è una misura artistica, interna alla fatica dell´artista, e deve rimanere al riparo dei fischi e degli applausi. Per questo penso che in democrazia, sia pure una democrazia a bassa tensione come la nostra, essere censurati è per metà un sopruso subito, per metà un errore commesso. So che è una verità spiacevole da dire, perché rischia di sembrare a carico di chi subisce censura. Ma è una verità ben conosciuta da chi fa satira: gli errori dei quali ci si pente davvero, a conti fatti, sono quasi sempre errori noti solo a chi li ha commessi, sono errori di bersaglio oppure di tono, sono omissioni o al contrario facili accanimenti. I veri "limiti della satira" sono dunque i limiti del satirico, e quasi mai finiscono nelle cronache giudiziarie o nelle pagine dei giornali.

ERNESTO ASSANTE
ERNESTO ASSANTE
«Banalmente, la satira è l´espressione di giudizi critici su qualunque aspetto della società attraverso il linguaggio dell´umorismo, in tutte o in una qualunque delle sue declinazioni, grafica, letteraria, musicale o attoriale». Corrado Guzzanti, che di satira ne ha messa parecchia in scena, in trasmissioni tv come Avanzi, L´ottavo nano, Il caso Scarfoglia, cerca di tenersi lontano dalla teoria e dalle definizioni astratte, per restare saldamente ancorato alla pratica del "mestiere".
Guzzanti, è possibile, a suo avviso, dire cos´è la satira?
«Tendo a diffidare di chi vuole dare una definizione di satira. Quasi sempre la ricerca della definizione non è animata da curiosità filosofica ma dal desiderio di stabilire cosa non sia la satira, per poter procedere a censure, con la nota formula "noi difendiamo e amiamo la satira ma l´artista invece di fare ciò per cui è stato scritturato e ben pagato! è scaduto nell´invettiva, nell´insulto gratuito, nel comizio di parte" ecc. L´idea è quella di far somigliare la censura, o la cancellazione di un programma televisivo a una normale contestazione per un lavoro mal fatto, come a un muratore che ha tirato su un tramezzo sbilenco. Ma il muratore ha come riferimento il disegno di un architetto mentre nel contratto del satirico non c´è una definizione universale della parola satira».
Ma la satira esiste.
«Nella realtà fenomenica la satira non esiste, esistono solo i satirici. E questi guadagnano maggiormente l´amore e il consenso del pubblico quanto meno sono generici lavoratori del settore chiamati, come si è sentito dire in questi anni di integralismo aziendale, a confezionare un prodotto, quanto più sono unici e rendono il loro lavoro quasi indistinguibile da ciò che sono come persone. I satirici non possono, diversamente da altri attori, non esporre al pubblico insieme alle loro idee, il loro stile di vita, i gusti culturali e politici, il loro carattere. E questo a mio parere rende la questione della terzietà o dell´imparzialità della satira un falso problema. A un artista satirico indignato per il conflitto d´interessi, insomma, non ha senso chiedere, come si è sentito dire, di controbilanciare la sua satira attaccando anche la sinistra se non per dire che non ha mai fatto e non farà mai niente per risolvere il conflitto di interessi. Luttazzi è Luttazzi, Grillo è Grillo, Benigni è Benigni e non avrebbe senso, né mai accetterebbero, se non perseguitati dalle bollette, di intavolare trattative per concordare una prestazione graduale di se stessi».
Un lavoro che costa attenzione e fatica. Anche perché quando si fa satira su un personaggio pubblico si deve tenere conto dell´idea che il pubblico si è fatta di quel personaggio...
«Sì, naturalmente, ne tengo conto. Ma dipende anche dal tipo di scelta che il satirico fa, se lavora su un personaggio, come nel caso di Rutelli che parlava con la voce di Alberto Sordi, o un monologo, o un commento. Nel caso di Rutelli, ad esempio, non essendo un tuo amico privato devi contare largamente su una serie di nozioni e impressioni che appartengono a tutti. Il dramma di chi fa satira è dover essere costretti a fare lo "spiegone", parlare per cinque minuti ricordando questo e quello per poi essere sicuri che venga compresa la parte comica. Il comico satirico fa un colpo se con una sintesi più breve possibile, una battuta, un gesto, riesce a individuare un elemento che tutti percepiscono ma non riescono a mettere a fuoco».
Puntare sulle caratteristiche fisiche è una scorciatoia?
«Certo se si punta alla denigrazione fisica si può ottenere un effetto liberatorio che sarà proporzionale all´impopolarità del "satirizzato", ma questa di solito è proprio la satira che il potere ama perché umanizza e assolve».
Come decide se una battuta, una caratterizzazione va bene o no?
«La mia prima regola è fare qualcosa che mi divertirebbe vedere come spettatore, la seconda è cercare di andare a colpire il personaggio solo nel suo essere pubblico, raccogliendo dichiarazioni, atti, gesti, evidenziando le falsità e le contraddizioni, il resto è colore. Ma se l´unica cosa che ho da dire di Berlusconi è che è basso non faccio bene il mio mestiere...».
Per un satirico il confronto con il potere è inevitabile. Prendere in giro Berlusconi o Fassino fa ridere, prendere in giro il fornaio sotto casa molto meno.
«Questo dipende, se la satira sul fornaio individua una tipologia, un modo di essere, può superare lo spunto e avere valore quanto la parodia di un uomo di potere. Per i miei gusti lo è anche di più».
Ma se una vittima della satira vuole difendersi cosa fa?
«Credo che siano sufficienti gli strumenti legali, l´uso della querela e, ancor più, un dibattito pubblico in cui la parte offesa si esponesse direttamente invece di alzare il telefono e far fare il lavoro ad altri».
Insomma la satira non può essere criticata?
«Tornando a quello che dicevamo all´inizio, oltre a chi definisce la satira per limitarla diffido anche degli integralisti che la considerano sacra oltre la stessa sacralità dell´informazione. Diffido di chi non le attribuisce valore se non "graffia" abbastanza se non ferisce e non offende. Niente di più falso. Si può facilmente offendere, infastidire o ferire qualcuno senza fare per questo della buona satira. Ritengo che lo scopo sia strettamente quello di esprimere e articolare una critica e non quello di ottenerne un effetto».