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 2007  dicembre 13 Giovedì calendario

Vi racconto l’isola di ARTURO. L’Espresso 13 dicembre 2007. Non di sola politica vive Arturo Parisi, ministro della Difesa, inventore dell’Ulivo, promotore del Partito democratico, fautore delle primarie, consigliere di Prodi, strenuo difensore del maggioritario

Vi racconto l’isola di ARTURO. L’Espresso 13 dicembre 2007. Non di sola politica vive Arturo Parisi, ministro della Difesa, inventore dell’Ulivo, promotore del Partito democratico, fautore delle primarie, consigliere di Prodi, strenuo difensore del maggioritario. Nonostante i toni sempre asciutti, Parisi vive anche di poesie scritte in segreto, di fughe nella memoria, di solitudini ostinate, di rimpianti non sopiti e, soprattutto, di un grande piacere nell’osservare se stesso mentre pensa o parla. Tutti motivi che gli fanno accogliere la piccola sfida di questa intervista sentimentale con un compiaciuto: «Sono curioso di sentire che cosa le dirò!». Tanto più che il celebre carattere spigoloso è, in questo periodo, concentrato sui nemici della sua creatura più cara: il bipolarismo. La conversazione che segue vedrà così due Parisi: il politico che reagisce da par suo al pericolo di veder azzerati i risultati di un impegno ventennale, e l’uomo che riannoda i ricordi sparsi della propria vicenda personale. Si sente tradito, ministro? Qui si torna al proporzionale, alla delega ai partiti. A tutto ciò che lei detesta. «Un grande salto all’indietro. In pochi giorni sono stati distrutti tutti i riferimenti concettuali degli ultimi vent’anni». Non sembra però che lei stia alzando bandiera bianca. «Il mio impegno in politica è in nome di un’idea e prima di arrendermi al suo fallimento ho il dovere di provarle tutte. A cominciare dal referendum che ha raccolto tra i cittadini la stessa preoccupazione che ci fu nei primi anni Novanta. Le 821 mila firme, vere e certificate dalla Cassazione, non sono una bazzecola». Ma i giochi sembrano fatti. Pensa davvero di poter invertire la tendenza? « doveroso tentare, anche se può capitare di essere sconfitti. Viene da pensare al povero Garibaldi che si è trovato straniero rispetto al Paese che più degli altri aveva costruito. Ma non smise di combattere. Lo dico a voce bassa: la nostra impresa è fortunatamente meno drammatica, tuttavia non è meno importante». Comunque il Partito democratico è una realtà. E così il leader eletto da primarie. Si sarebbe mai aspettato un Veltroni tanto decisionista? «La sua non è la linea di democrazia che guida me, ma io riconosco le qualità delle persone. E certamente Veltroni ne ha». Però... «Però se il Partito democratico vuol essere all’altezza dell’unico aggettivo che lo qualifica, democratico appunto, deve aprirsi al contributo dei cittadini su tutte le scelte. Non si può rivoltare il guanto della democrazia diretta, alla quale abbiamo intitolato la stagione dell’Ulivo, con un colpo di mano del vertice. Devo aggiungere tuttavia che c’è qualcosa di preterintenzionale». Che intende? Che non lo fa apposta? «Se un leader non ha un disegno iniziale, se non è stato chiaro con gli elettori, se nessuno ha capito su quale linea ha vinto, le idee e le tentazioni vengono strada facendo. A me resta il dovere della correzione fraterna. Se una cosa appare contraria alla democrazia, va denunciata». Mi tolga una curiosità. Perché ci tiene tanto a mettersi di traverso, a indicare per primo quello che non va? «Per la verità mi metto a fianco di chi cerca la meta e di traverso a chi cerca di deviare dalla strada convenuta. Capisco che in politica la mia libertà possa dar fastidio, forse perché alla politica non mi sono mai consegnato veramente. Ci sono arrivato a 56 anni, dopo un percorso professionale compiuto. Molti credono che in politica la libertà venga dal fatto di essere giovani. il contrario. Io non devo preoccuparmi di non mettere a rischio gli anni che mi attendono. Di questo almeno sono leggero: del peso del futuro». Resta quello del passato. Le va di cominciare dall’inizio? «L’inizio è quello di un bambino di sei anni portato di fronte al cadavere del padre a cui dicono: "Adesso il capofamiglia sei tu!"». Un macigno. «Sì, un macigno. Compresi subito che era una fregatura. Con mio padre, ufficiale della Guardia forestale, se ne andava anche l’unico sostentamento, e la nostra diventò una famiglia povera. Mi sentivo caricato di responsabilità adulte, alle quali mi sottraevo con grandi sensi di colpa, almeno fino a quando l’adolescenza non mi mise con le spalle al muro». Come? «Come capita ai ragazzi che passano molta parte del loro tempo in strada. Se in campagna si incontrano animali e banditi, nelle strade delle città si trovano animaletti e banditelli. stata la condizione che ha segnato la mia formazione, non certo il mio temperamento». La dica tutta, professore. Stiamo scoprendo che era un ragazzaccio? «Niente di più di qualche piccola rissa, qualche furto campestre, alcune fughe da casa, dalle quali mi riconsegnavo da solo. Poi a 15 anni ho scelto di andarmene alla scuola militare della Nunziatella». Che scelta è a quell’età? Viene da pensare che cercasse un contenimento esterno. «La sua non è una riflessione banale. Ma io andai alla Nunziatella senza incertezze. Tanti segnali me la indicavano come il luogo a cui ero destinato, a partire dal fatto che il fondatore era un Parisi del Settecento: il generale Giuseppe Parisi». Come se l’è cavata nel mondo militare? «Sono stati gli anni determinanti della mia vita. Lì ho avuto il primo rapporto con la regola, quella che nasce da un patto tra adulti. Lì ho scoperto la forza dell’uniformità interna e della divisione dal mondo esterno. Ha mai pensato che questo è il significato dei due modi di chiamare l’abito militare: "uniforme" all’interno e "divisa" rispetto all’esterno? un doppio registro che ho poi ritrovato anche nel Sessantotto». Un bel salto. Dov’è il collegamento? «Nel Sessantotto la conformità tra coetanei e la distinzione dai padri fu la molla che consentì ad ognuno di morire e di rinascere». Anche a lei? «No, io ne fui coinvolto ma non travolto. Ho però trattenuto i sapori di quell’anno perché, ricercatore all’università di Milano, mi concessi un supplemento di giovinezza e lo vissi tutto dall’interno». Compresa la liberazione sessuale? «Ero già fidanzato. Con la ragazza della casa di fronte, a Sassari. Anche lei era venuta a Milano come matricola della Cattolica. Ci saremmo sposati due anni più tardi, dopo il trasferimento a Bologna». Già, la città della sua vita... «Ancora oggi una città college, un villaggio come la mia Sassari ma, a differenza di Sassari, al centro di quella che a noi isolani appariva come un’infinita città metropolitana. Ricordo il senso di libertà dei primi anni del matrimonio». Racconti. «Io e mia moglie andavamo alla stazione e salivamo sul primo treno in partenza, non importa per dove. Potevamo arrivare a Ferrara, Carpi, Mantova. Era bellissimo. Se non ci fosse stata la dogana saremmo arrivati anche a Mosca». A Bologna ha conosciuto Prodi: l’incontro di una vita. Vi siete piaciuti subito? «Ci abbiamo messo un po’. Io sociologo, lui economista, eravamo entrambi attratti dai fatti. Ma a lui servivano per fare, a me per pensare. Le foto di quel tempo descrivono Prodi piuttosto bruttino. Ma migliora di anno in anno. Morirà bellissimo». Lei è ha un figlio ormai adulto. Che padre pensa di essere stato? «Certamente inadeguato». Perché non ha avuto un modello paterno? «No, per lo squilibrio tra desideri e realtà. I modelli non c’entrano, perché ho avuto un nonno che è stato un riferimento sufficiente. Era un bel nonno, un poeta, un marinaio pieno di racconti di antiche e lontane avventure». Ne ricorda qualcuna? «Sono tutte in un libro che aveva scritto, e che lasciò a me e mio fratello. Si apriva con un motto che per me resta un’indicazione di vita: "Assicuratevi della rotondità della terra"». Un invito a percorrerla tutta? «Sì, ma anche a verificarla, a non dare nulla per scontato. Insegnamento che mi ha sempre guidato nella diffidenza verso il sentito dire». Ministro, se mi passa la domanda, lei pensa di essere un po’ narcisista? «Perfezionista. Si teme sempre di non riuscire a rappresentarsi al meglio. In particolare nella scrittura, per me è difficile conciliare la velocità che pretendo e la perfezione a cui aspiro. Ma il computer mi ha molto aiutato». Ha mai scritto poesie? «Sì, ma questo è un must della mia generazione. Ancora oggi ogni tanto ho cedimenti». Me ne dà una? «Assolutamente no». Stefania Rossini