Corriere della Sera 08/12/2007, pag.17 SERGIO ROMANO, 8 dicembre 2007
Usa-Cuba: affari proibiti oltre il Muro dell’Avana. Corriere della Sera 8 dicembre 2007. Anche all’Avana, come a Berlino negli anni della guerra fredda, vi è un luogo in cui il comunismo e i suoi nemici si guardano in cagnesco
Usa-Cuba: affari proibiti oltre il Muro dell’Avana. Corriere della Sera 8 dicembre 2007. Anche all’Avana, come a Berlino negli anni della guerra fredda, vi è un luogo in cui il comunismo e i suoi nemici si guardano in cagnesco. Non è un muro. Non vi sono Vopos (i Volkspolizisten della Repubblica Democratica Tedesca), pronti a sparare su chiunque cerchi di scavalcarlo. E non vi è un check-point Charlie per coloro che vogliono passare legalmente da una parte all’altra. E’ un grande edificio dove ha sede l’Ufficio degli interessi americani. Sorge a pochi metri dal Malecón, lo splendido lungomare che cinge la baia dell’Avana, e si affaccia sull’Atlantico. Risale al periodo in cui il presidente Jimmy Carter, verso la fine degli anni Settanta, propose l’apertura di due uffici paralleli all’Avana e a Washington per la rappresentanza dei rispettivi interessi. E per alcuni anni sembrò essere il primo passo su una strada che avrebbe condotto alla ripresa dei rapporti diplomatici. Ma da qualche tempo è diventato il campo di battaglia di una guerra ideologica. Un rappresentante inviato da George W. Bush nel 2002 interpretò il proprio compito come quella di un vescovo in partibus infidelium ecomincio a proiettare ogni giorno, dopo il tramonto, una serie ininterrotta di messaggi sulla democrazia e i diritti umani che scorrono in lettere luminose lungo la sommità del palazzo. Il rappresentante degli Stati Uniti sperava che i cittadini dell’Avana si sarebbero affollati di fronte al suo ufficio, con il naso all’aria, per leggere il suo «Bollettino del mondo libero». La cose andarono diversamente. I cubani risposero alla «provocazione» innalzando di fronte all’edificio una trentina di aste da cui sventolano altrettante bandiere nere e delimitando, dietro alle bandiere, una specie di arena per manifestazioni di massa a cui si accede attraverso un varco sorvegliato da una garitta. Non basta. Quando si affacciano alle finestre dell’edificio i funzionari degli Stati Uniti trovano di fronte ai loro occhi due grandi scritte: Patria o muerte e Venceremos. Per le automobili che corrono lungo il Malecón esistono invece due cartelli. Nel primo sono rappresentati cinque agenti cubani che si sono infiltrati nelle organizzazioni degli esuli della Florida per «sventare azioni terroristiche» e stanno scontando lunghe pene di prigione in un carcere degli Stati Uniti. Nel secondo appaiono i volti di tre personaggi malefici uniti da un segno di equazione: Bush, Posada Carriles e Hitler. Posada è un venezuelano, possibile agente della Cia e probabile autore di un attentato che provocò l’esplosione di un aereo civile cubano di fronte alle coste delle Barbados nell’ottobre del 1976. E’ riapparso negli Stati Uniti due anni fa e ha chiesto asilo politico, ma è stato processato recentemente da un tribunale americano per «ingresso illegale». Dietro la guerra ideologica del Malecón vi è la storia, non meno tragicomica, di un embargo che risale al febbraio del 1962. Le prime sanzioni furono adottate da Kennedy e la loro applicazione rispecchia da allora gli alti e bassi dei rapporti fra i due Paesi. La legge Helms Burton del 1997 rafforza il blocco economico grazie a una discutibile norma extraterritoriale contro gli investitori stranieri che accettano di lavorare con imprese confiscate dallo Stato cubano dopo la rivoluzione. Ma esistono in quegli anni accordi d’emigrazione che permettono ai cubani della Florida di visitare l’isola e di assistere finanziariamente i loro congiunti. Comincia così un certo viavai di turisti americani, non tutti legali, su cui le autorità degli Stati Uniti, per un certo periodo, chiudono gli occhi: almeno 80.000, secondo le autorità cubane, prima dell’elezione di Bush alla Casa Bianca. Insieme ai turisti, nell’ultima fase della presidenza Clinton, arrivano le prime esportazioni di cereali americani. Ma George W. Bush vuole che l’embargo venga applicato con maggiore rigore. Il Dipartimento del Tesoro manda i suoi ispettori negli aeroporti, da Toronto a Cancún, più frequentemente utilizzati dai turisti americani per raggiungere Cuba illegalmente. Le multe, per coloro che vengono colti in fallo, ammontano a parecchie migliaia di dollari, e il flusso dei turisti americani si riduce progressivamente a qualche centinaio. Molto più salate, naturalmente, sono le pene riservate alle banche che accettano di fare transazioni in dollari per enti cubani. Ma nello stesso mese in cui il presidente ordina un nuovo giro di vite, gli Stati Uniti autorizzano l’invio a Cuba di un considerevole quantitativo di prodotti agricoli. E’ un provvedimento umanitario, deciso per assistere le popolazioni dell’isola colpite da un disastroso uragano. Ma gli aiuti diventano rapidamente un affare. Gli Stati Uniti vendono all’isola, ogni anno, cereali e fertilizzanti per 500 milioni di dollari. Alla grande Fiera agricola dell’Avana, nello scorso novembre, il governatore del Nebraska ha firmato un contratto per undici milioni di dollari. Un centinaio di uomini d’affari americani, fra cui i rappresentanti dell’Alabama, del Minnesota e dell’Ohio, sono corsi a Cuba nella speranza di fare altrettanto. L’amministrazione, intanto, non osa prendere di petto la lobby agricola, ma complica le transazioni pretendendo che le merci vengano esportate soltanto dopo il saldo anticipato, in contanti. Un articolo apparso nell’International Herald Tribune del 13 novembre ricorda che una legge del 1992 vieta l’ingresso nei porti americani per sei mesi alle navi provenienti da Cuba. A completare il quadro, naturalmente, pensa la burocrazia, sempre pronta a esigere un altro certificato, un altro timbro, un’altra firma. Chi giungesse alla conclusione che questo percorso a ostacoli stia uccidendo il commercio di cereali americani con l’isola, commetterebbe tuttavia un errore. Il principale nemico di Cuba è oggi il suo terzo partner commerciale. Il numero dei turisti americani è andato progressivamente calando sino a diventare pressoché insignificante, ma quello dei turisti canadesi è considerevolmente aumentato. E la barriera di sanzioni eretta da Bush intorno all’isola offre al regime l’occasione di recitare magistralmente la parte del piccolo David schiacciato da un arrogante Golia. Un ministro degli Esteri cubano, qualche tempo fa, ha dichiarato che il costo di quarant’anni di embargo ammonta, per l’isola, alla somma di 72 miliardi di dollari. Un cartello, sulle strade che escono dall’Avana, annuncia che una giornata d’embargo priva Cuba di una somma pari al prezzo di 78 locomotrici. E’ possibile che queste cifre siano esagerate, ma l’effetto delle sanzioni su alcuni settori dell’economia cubana è evidente. I negozi sono spesso pressoché vuoti. Le automobili in circolazione sono vecchie e maledettamente inquinanti. Gli impianti industriali invecchiano. Le parti di ricambio non arrivano. Sembra che nel corso di una sfilata militare un carro armato si sia improvvisamente bloccato di fronte alla tribuna d’onore seminando confusione fra quelli che lo seguivano. Queste carenze sono in buona parte le naturali conseguenze di una economia comunista. Ma l’embargo americano offre al regime il destro di attribuirne la responsabilità agli Stati Uniti e di servirsi di questo argomento per chiedere al Paese una maggiore solidarietà nazionale. Non è tutto. Facendo dell’embargo l’unico strumento della politica americana Bush ha rifiutato di cogliere i segnali che il fratello di Fidel Castro, Raul, ha mandato all’America con i suoi discorsi e qualche iniziativa riformatrice. Ma di questo parleremo in un prossimo articolo. (1/continua) SERGIO ROMANO