Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2007  dicembre 09 Domenica calendario

Incubo Wagner. Corriere della Sera 9 dicembre 2007. MILANO – La «prima» del Tristano e Isolda è stata, come la prova generale, un trionfo, giustificato da gran parte dell’aspetto musicale dello spettacolo e dalla circostanza che il capolavoro mancava alla Scala da trent’anni

Incubo Wagner. Corriere della Sera 9 dicembre 2007. MILANO – La «prima» del Tristano e Isolda è stata, come la prova generale, un trionfo, giustificato da gran parte dell’aspetto musicale dello spettacolo e dalla circostanza che il capolavoro mancava alla Scala da trent’anni. Il pubblico non ha fatto distinzioni fra questo e l’allestimento scenico perché «forte è l’incanto » dell’invenzione di Wagner e la sua musica induce in tutti una profonda commozione che può ottundere i sensi e il ragionamento. Ma Wagner è anche uno dei più grandi drammaturghi della Storia e si preoccupava minuziosamente e personalmente della regia dei suoi Drammi Musicali. Mi vedo quasi solo a nutrire le maggiori perplessità nei confronti dell’allestimento scenico di Patrice Chéreau e Richard Peduzzi, ambientazione da incubo nel I atto, e piena di sorprendenti errori di grammatica: ma non è questione di gusti personali, è questione in fatto: l’allestimento scenico deve rivelare il contenuto drammatico dell’opera, non stravolgerlo o commentarlo. Parliamo degli errori principali. Ho detto ieri che l’ambientazione ai giorni nostri di qualsiasi testo è un ormai vecchio esperanto registico della provincia tedesca, un presupposto obbligatorio. Schiller, Molière, Debussy, Mozart, Wagner, tutti omologati e la Scala omologata anch’essa: la quale dovrebbe indicare vie nuove, non andare a rimorchio. Quando parlo dell’orribile chiatta a motore incassata in un muro di mattoni scalcinati penso alla nave spinta verso i campi, che da lunge sembrano ancora azzurri, da una fresca brezza ch’empie le vele. In partitura c’è anche lo svelto motivo del vento. Oltre all’orrore specifico, aboliremo quest’ultimo perché vele e vento sono scomparsi? Sul ponte è una tenda, alloggio di Isolda. Non ha funzione esornativa, serve a separare Isolda e Brangania dalla vita della nave perché, nel mirabile svolgimento dell’antefatto, Brangania, e noi con lei, possiamo apprendere i terribili segreti di questo. Mi ripeto, alla Scala la tenda non c’è, e non potrebb’esserci su di una chiatta a motore: tutto ciò avviene in presenza dell’affaccendata ciurmaglia ed è drammaticamente ingiustificabile perché impossibile. Dico di più: nel corso dell’intero colloquio nella tenda Tristano e Isolda sono in potere di un’emozione tale che mai potrebbero affrontarlo in presenza di testimoni. Quando, bevuto alla fatale coppa, i due pronunciano ciascuno il nome dell’altro e penetrano nel loro eros metafisico, Chéreau ci fa assistere a cosa volgarissima: Tristano e Isolda si avvinghiano a terra in una sorta di raptus carnale e debbono essere separati con la violenza, come due cani che si accoppiano. Ciò avviene in presenza dell’intera ciurma: le corna di re Marke, si potrebbe osservare, sono pubbliche e bollate e la vicenda non potrebbe che terminarsi qui. Invece il Re, col suo cappottino chiaro, pochi secondi dopo monta a bordo e porge galantemente il braccio alla signora Marke. La sterminata scena d’amore del II atto si svolge sempre in un arido terreno con insediamenti industriali e il muro di mattoni da sfondo. V’è in essa, giusta Wagner, un punto particolarmente sublime: due volte Brangania, a spiare sul tetto e ad ammonire gli amanti che la notte è alla fine, fa udire l’arco del suo canto: e deve farlo udire dall’alto e da lontano, ella invisibile. Chéreau la fa trascinarsi in scena col manto d’Isolda in mano, come quelle vecchie cameriere fedeli d’un tempo, o come una vecchia mezzana professionista, e pronunciare di presenza il canto, mentre gli amanti restano sempre all’impiedi e Tristano è patetico in quel suo cappottino lungo modino-piccolo borghese. Sorprende che il maestro Barenboim abbia così realizzato un mutamento della partitura musicale. Prima, quando Isolda compie, contro l’avvertimento di Brangania, il gesto decisivo convenuto con Tristano per chiamarlo, butta a terra una lampada di plastica che si spegne senza frangersi. Dovrebbe estinguere una fiaccola: la fiaccola spenta e rovesciata era parte del simbolismo funerario degli Antichi, e Wagner vuole ricordare che prima dell’inizio della scena d’amore siamo già dentro la Morte. Ma basta a proposito d’una versione forse suggestiva per qualche, solo qualche, bell’attitudine scenica ma essenzialmente adulteratrice del Dramma Musicale. Il pubblico potrà anche andare in visibilio di fronte a tutto ciò: il dovere del critico è di distinguere e rilevare dati in fatto che non possono essere giustificati. D’altronde, si confesserà quanta disillusione vi sia nel compiere tale dovere. Gli spettacoli, s’è detto, sono tutti eguali, all’insegna della vicenda trasposta nell’epoca attuale e del cappottismo, quando non anche dei telefoni cellulari e delle macchine da scrivere, e si rischia di esprimere sempre le stesse cose, come dei vecchi patetici. Il maestro Barenboim dirige un Tristano severo e solenne giusta la grande tradizione; il che induce a perdonargli taluna libertà ritmica nel Preludio e la slabbratura di qualche accordo a piena orchestra. Dirige con grande cognizione di causa, a memoria, ed è capace di fare della poderosa orchestra anche un frusciante tappeto (II atto: a partire da O sink hernieder, Nacht der Liebe). Tra i solisti, lodevoli in particolare per l’impegno richiesto il clarinetto basso e il corno inglese. Waltraud Meyer è un’Isolda ammirevole per il dominio vocale e psicologico del ruolo che canta con tecnica intatta; mentre non allo stesso livello è l’interprete di Tristano, il tenore Ian Storey, che a mezzi vocali modesti aggiunge un difetto della fonazione articolata portante a dizione non chiara: e il canto è, come si dice in gergo, «ingolato». Ho già scritto che il re Marke di Matti Salminen è una vera personalità: si ascolta con emozione lo strenuo sforzo di ridurre a un sussurro l’enorme voce. Ottima la linea di canto di Michelle DeYoung, Brangania, soddisfacente il Kurwenal di Gert Grochowski; infine un cammeo l’«interno» del Marinaio, Alfredo Nigro. PAOLO ISOTTA