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 2007  dicembre 10 Lunedì calendario

KOSOVO VARI


Corriere della Sera 8 dicembre 2007.
Ivo Caizzi
Kosovo, la Nato pronta a inviare più uomini. BRUXELLES – L’ormai scontato fallimento della mediazione di Stati Uniti, Unione europea e Russia per una soluzione concordata, entro la scadenza di lunedì prossimo, avvicina l’eventualità di una dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo dalla Serbia, destinata a provocare conseguenze imprevedibili nei rapporti tra Pristina e Belgrado. I ministri degli Esteri della Nato, riuniti a Bruxelles, hanno così deciso che l’Alleanza manterrà in Kosovo l’attuale forza di oltre 16 mila uomini per prevenire destabilizzazioni. Lunedì i ministri degli Esteri dell’Ue discuteranno l’invio di un potenziamento composto da circa 1.800 funzionari, che dovrebbero sviluppare l’apparato amministrativo in un clima di contrasti profondi tra i kosovari albanesi e la minoranza di origine serba.
Il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, ha invitato a definire «al più presto» la missione dell’Ue perché «una volta presidiato il Kosovo da un punto di vista militare e civile potremo discutere tutti gli altri problemi». D’Alema ha ammesso la complessità del problema e che «bisogna essere pronti a ogni evenienza». Ha auspicato che la riunione di lunedì possa consentire al vertice dei capi di Stato e di governo, venerdì prossimo, di dare un via libera politico all’invio dei funzionari europei. Il passaggio successivo è atteso dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, dove l’Italia ha la presidenza di turno e dove sono informati del fallimento delle trattative.
In un incontro con il premier britannico Gordon Brown, il presidente del Consiglio Romano Prodi ha ricordato che il Kosovo «potrebbe diventare un inferno». I governi di Roma, Londra, Berlino e Parigi hanno inviato una lettera agli altri Paesi Ue per avvertirli che il tempo delle negoziazioni è scaduto ed è ora di trovare una soluzione anche senza l’avallo dell’Onu, dove si rischia il veto della Russia. Stati Uniti e altri Paesi premono per l’indipendenza del Kosovo. «Non aiuterà la regione ignorare qual è la realtà tra Belgrado e Pristina – ha dichiarato il segretario di Stato Usa Condoleezza Rice ”. Non aiuterà la stabilità rinviare la decisione». Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha però ribadito l’appoggio di Mosca alla Serbia. Lavrov ha esortato a far continuare le trattative Belgrado-Pristina. Ha definito «violazione delle leggi internazionali » e «un precedente pericoloso» una dichiarazione di indipendenza del Kosovo. Anche la Spagna e altri Paesi hanno espresso preoccupazione per le conseguenze su altre rivendicazioni autonomiste interne alla Ue. Lavrov ha detto che la Russia reagirebbe a questa eventualità «in accordo con il diritto internazionale ». Un portavoce della Nato ha confermato i dissensi sul Kosovo con Mosca, che minaccia di sospendere dal 12 dicembre il Trattato per il controllo degli armamenti convenzionali.
D’Alema ha ricordato che l’Italia è pronta ad aggiungere agli attuali 2 mila uomini una riserva militare in grado di intervenire con l’Alleanza in caso di necessità. Il responsabile della Farnesina, rispondendo a un intervento del senatore Francesco Cossiga, ha rassicurato che «sarà il Parlamento a decidere». I kosovari albanesi sembrano disposti ad aspettare almeno la fine di gennaio prima di dichiarare l’indipendenza. L’Ue e la Nato puntano a evitare che la prevedibile reazione della Serbia dia il via ai bagni di sangue che hanno sconvolto i Balcani negli anni Novanta.



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Corriere della Sera 08 dicembre 2007.
Massimo Nava
La dolorosa rinuncia dei serbi con il miraggio dell’Europa. BELGRADO – I bambini delle elementari imparano l’italiano. Milioni di giovani parlano inglese. Nelle strade di Belgrado – caotiche, con un parco macchine rinnovato – insegne di imprese e banche straniere. Vetrine e menu parlano italiano. Molte aziende stanno per diventare russe. La polizia usa Fiat Punto.
In questa Serbia in fermento, con un’economia complicata (24% di disoccupati) ma in crescita (più 5,7 sul 2005), istituzioni fragili ma democratiche, le generazioni del presente andavano all’asilo quando i Balcani erano in guerra (1991), frequentavano il liceo quando le bombe della Nato cadevano su Belgrado (1999) e i loro padri si liberavano di Milosevic (2000).
Hanno cambiato 4 passaporti senza uscire dai confini: quelli della Yugoslavia, della piccola Yugoslavia dopo le separazioni di Croazia e Bosnia, della Federazione Serbia-Montenegro e quello di oggi, della sola Serbia, dopo che anche i montenegrini hanno deciso di separarsi (continuando a spendere a Belgrado milioni di dollari investiti dai magnati russi sulla costa svenduta).
 una generazione molto vicina, per stili di vita e sensibilità culturale, all’Italia, e pronta per l’Europa, come alcuni giovani leader, competenti, formati all’estero. Invece fa la coda alle ambasciate per un visto turistico. Per sentirsi davvero europea dovrà attendere il prossimo esame imposto dalla comunità internazionale alla Serbia: la rassegnata perdita del Kosovo, centro della memoria storica e religiosa della nazione. Esame difficile e un po’ surreale. Perché rischia di rimettere in circolo virus della frustrazione nazionalista, sindrome da isolamento, tesi del complotto internazionale ai danni di Belgrado. Surreale, perché non si sa in che cosa consista la «promozione ». L’ingresso in Europa? Ma come? E soprattutto quando?
Accusata di essere al primo posto nell’imbarazzante gerarchia delle responsabilità della tragedia balcanica, la Serbia ricorda la Germania post nazista. Paga le colpe dei padri e vive sotto sorveglianza morale. Per indubbie responsabilità, i serbi devono sottostare alla regola delle due misure scritta dalla grandi potenze non solo nei Balcani: il principio dell’integrità della Bosnia (e più in generale degli Stati sovrani) non vale per la Serbia che ha subito la separazione del Montenegro e subirà l’amputazione del Kosovo. Il mondo chiude gli occhi sulla Cecenia, distoglie lo sguardo dal Tibet, ma osserva il favoloso destino della minoranza albanese.
Il futuro del Kosovo è deciso, essendo la logica conseguenza della guerra del 1999, del bombardamento della Nato e della pulizia etnica di Milosevic. La sorte dei centomila serbi che vi vivono barricati non interessa a nessuno. Il fatto che qui transiti la droga destinata ai mercati europei, non consiglia maggiore prudenza. La Comunità internazionale e le capitali europee in ordine sparso preferiscono correre il rischio di un fragile Stato esposto a traffici e mafie, piuttosto che prolungare pace armata e limbo istituzionale. Gli Usa, per primi, hanno dato il via libera, con l’ intento di smobilitare uomini e mezzi.
Oltre agli esami, la Serbia è chiamata anche alla prova d’onore: la consegna dei criminali di guerra, il generale Mladic e l’ex presidente serbo bosniaco Karadzic. Anche questa prova rimette in circolo reazioni nazionalistiche e veleni nell’unico Paese al mondo che ha estradato il capo dello Stato. Milosevic, processato all’Aja, è peraltro morto in cella prima della sentenza.
La nuova leadership si muove con prudenza («un centimetro meno dell’indipendenza», è lo slogan per il Kosovo) teme reazioni scomposte all’ interno e situazioni fuori controllo. I serbi si chiedono se ne valga la pena, essendo molto vaga la contropartita: l’ingresso in Europa, possibilità suggestiva quando se ne parla nelle conferenze, ma ancora lontana, a giudicare dall’inclinazione dell’Unione alla chiusura. Il progetto di unione del Mediterraneo, lanciato dalla Francia, guarda più alla sponda africana che alla sponda adriatica.
Si va in realtà verso altri scenari. La Russia allunga le mani su imprese serbe e montenegrine (raffinerie, miniere, compagnie aeree, complessi alberghieri) e vorrebbe mettere Belgrado sotto tutela. Come in passato, la Serbia è controvoglia crocevia di strategie esterne, il vaso di coccio fra Mosca e Washington. L’incertezza economica e politica è terreno favorevole al crimine organizzato, che non si pone problemi di bandiere e confini. Il riconoscimento unilaterale dell’indipendenza del Kosovo riporta i Balcani sull’orlo del baratro. Il dialogo fra serbi e albanesi è a un punto morto. A differenza che nel ’91, l’Europa è più attenta alle tragedie alle porte di casa. Ma, come nel ’91, si va verso lo sbocco più complicato. Ammesso che ne esista un altro.


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LA REPUBBLICA 07/12/2007
TIMOTHY GARTON ASH
Nelle prossime settimane, man mano che il nodo dell´indipendenza del Kosovo viene al pettine, avremo con certezza altro sudore e lacrime, ma possiamo con un po´ di fortuna e di buon senso da parte di tutti, evitare che si versi altro sangue.
Questo esito finale non sarà del tutto equo, ma la storia funziona diversamente da un tribunale ideale, nel migliore dei casi dispensa giustizia sommaria. Serbi innocenti hanno sofferto e sono morti fianco a fianco di innocenti kosovari albanesi. Ricordo bene quanto i kosovari albanesi hanno patito sotto la sferza di Slobodan Milosevic. Davanti a me, mentre scrivo, ho le foto che scattai allora: famiglie costrette a lasciare le loro case, rovine, sangue sulla neve. Parlai con madri in lutto tremanti tra le macerie. Ma capisco anche la tragedia serba. I mirabili monasteri serbo-ortodossi, le gemme architettoniche di Decani, Gracanica and Pec, furono tra le prime mete dei miei viaggi nei Balcani più di trent´anni fa e restano tra le meraviglie di quella che in epoca più pia chiamavamo la terra di Dio. Ora, nonostante le previsioni di tutela contenute nelle proposte di accordi internazionali per il Kosovo, saranno isole all´interno di un altro paese, raggiungibili solo attraversando un territorio abitato e controllato da una popolazione, almeno per il momento, ostile.
Non so in che modo tracciare un bilancio storico che stabilisca se questo esito sia equo. Chi e in quali circostanze abbia diritto all´autodeterminazione è un enigma che i liberali non hanno saputo risolvere in 160 anni. Ma su due cose non ho dubbi. Primo: l´unico essere umano ad avere la massima responsabilità della tragedia serba è Slobodan Milosevic – possa marcire all´inferno – con l´ausilio e il favore di due criminali di guerra ancora in libertà, Radovan Karadzic e Ratko Mladic. Non dimenticherò mai le tristi parole che mi disse un monaco del monastero di Decani, a pochi giorni dall´invasione della Nato che scacciò le truppe serbe nell´estate del 1999. E´ Slobodan Milosevic, mi disse il religioso serbo-ortodosso, non solo ad aver perso il Kosovo, ma ad aver completamente distrutto il suo popolo, fisicamente e spriritualmente.
La seconda cosa di cui sono convinto è che l´esito ipotizzato sarà il minore dei mali, non solo per il Kosovo ma anche per la Serbia. Quest´ultima non esercita alcuna sovranità effettiva sul Kosovo dall´estate del 1999, fatta eccezione per le zone a nord del fiume Ibar controllate da serbi. In cuore la maggior parte dei serbi sa che il Kosovo è ormai perduto, ma quasi nessuno in politica lo ammetterà pubblicamente. Così il Kosovo è una ferita suppurata nel corpo dello stato serbo, che impedisce ai politici, ai burocrati e ai giornalisti del paese di concentrarsi su cosa conta davvero per il benessere del loro popolo. L´indipendenza del Kosovo equivale a un´amputazione, è vero, ma a volte, nonostante la tecnologia medica del ventunesimo secolo, amputare un arto straziato e in cancrena è la soluzione migliore per il paziente.
Il vero problema ora non è stabilire se l´esito sia equo, ma come ottenerlo. La via migliore è stata sbarrata dall´intransigenza della Russia di Putin. La soluzione a cui hanno lavorato tanto alacremente l´inviato speciale dell´Onu per il Kosovo, l´ex presidente della Finlandia Martti Ahtisaari ed altri negoziatori, ipotizzava una risoluzione del consiglio di sicurezza dell´Onu a sostegno del cosiddetto piano Ahtisaari. Quest´ultimo fissa le tappe per un´indipendenza condizionata per il Kosovo, con ampia protezione e autonomia per il luoghi sacri, le comunità e le municipalità serbe. La Russia non rende affatto un servigio agli slavi ortodossi in Serbia con la sua caparbietà. Ma caparbia era e caparbia rimane, a quanto sembra, dopo le recenti elezioni.
La via peggiore per il nuovo governo kosovaro guidato dall´ex leader dell´esercito di liberazione del Kosovo Hashim Thaci, sarebbe la corsa verso un´affrettata dichiarazione unilaterale d´indipendenza (Udi). Un passo del genere potrebbe scatenare la furia degli estremisti serbi e dei serbi a nord del fiume Ibar, la collera delle autorità di Belgrado (soprattutto in fase pre-elettorale) incluso forse un blocco commerciale e delle forniture di energia, per non parlare della possibilità che la cosiddetta Repubblica Serba di Bosnia ricorra alla retorica del pan per focaccia.
La via migliore attualmente praticabile consiste in quella che i negoziatori esperti oggi chiamano Cdi, una dichiarazione coordinata di indipendenza. Il nuovo governo kosovaro procederebbe verso il suo agognato obiettivo nell´arco dei prossimi tre mesi, ma in stretto coordinamento con l´Unione Europea ed altri partner internazionali. Sia i tempi che la forma verrebbero concordati. I kosovari albanesi collegherebbero esplicitamente la storica proclamazione d´indipendenza all´accettazione del piano di Ahtisaari , che prevede l´istituzione di un nuovo ufficio internazionale con il compito di sorvegliare la gestione del proto-stato, l´ininterrotta presenza di una forza di sicurezza Nato nonché l´impegno ad adottare una costituzione liberale e a tutelare i diritti delle minoranze. Se avrà coraggio e giudizio a sufficienza Thaci darà palese dimostrazione del suo impegno multietnico pronunciando per l´occasione un paio di parole generose, scelte con cura, in lingua serba.
Pur se con il sostegno degli Usa, della Nato e, Russia permettendo, dell´Onu, sarebbe l´Unione Europea ad assumere il ruolo guida nei nuovi accordi (il Kosovo dopo tutto è in Europa, non nel Wisconsin) e a inserirli nella più ampia prospettiva dell´adesione all´Ue. Ma tale prospettiva non dovrebbe essere limitata al Kosovo, deve estendersi all´intera regione.
L´Ue ha appena firmato un accordo definito in eurogergo di "stabilizzazione e associazione" con la Bosnia, un importante passo verso un´eventuale adesione. Sarebbe opportuno da parte UE chiarire all´opinione pubblica serba per vie diplomatiche che intende fare altrettanto con la Serbia non appena il primo dei due criminali di guerra Karadzic e Mladic verrà consegnato alla giustizia. Sarebbe inoltre in teoria opportuno persuadere i kosovari ad attendere e dichiarare l´indipendenza dopo il 3 febbraio , data attualmente prevista per il secondo turno delle presidenziali in Serbia, nel tentativo di evitare che un ultimo sussulto emotivo tra i serbi catapulti un estremista alla presidenza a Belgrado. (Non bisognerebbe però consentire alla Serbia di differire ulteriormente l´indipendenza del Kosovo posticipando semplicemente le elezioni).
La dichiarazione coordinata di indipendenza del Kosovo, al più tardi nel febbraio 2008, sarebbe così accompagnata da una forte offerta da parte europea ai serbi, barattare cioè la parvenza residua di sovranità formale sul Kosovo con l´opportunità concreta di un futuro migliore nell´Ue. Con le labbra la maggioranza dei serbi continuerà a dire no, col cuore potrebbero iniziare a dire sì.


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LA REPUBBLICA 10/12/2007
ALBERTO D´ARGENIO
Kosovo, ora il tempo è scaduto. BRUXELLES - Quello che fino a ieri era scontato oggi diventerà ufficiale: il segretario generale dell´Onu, Ban-Ki-Moon, prenderà atto che kosovari e serbi non sono stati in grado di trovare una soluzione allo status di Pristina. Da quel momento qualsiasi giorno potrebbe essere buono per l´attesa dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte del Kosovo. Passo che potrebbe riaccendere la violenza nella polveriera balcanica. Ieri il premier in pectore kosovaro, Hashim Thaci, intervistato dal francese Journal du Dimanche ha ribadito di essere «pronto all´indipendenza»: se il Consiglio di sicurezza non riuscirà a prendere una decisione sul nostro futuro, ha detto, «lavoreremo strettamente coi nostri alleati» per uscire dalla Serbia. Parole in grado di rinforzare l´ipotesi secondo cui il grande passo sarà compiuto nei primi mesi del 2008.
Il 19 dicembre, infatti, il Consiglio di sicurezza, sotto presidenza italiana, parlerà di Kosovo, ma senza grandi possibilità di accordo visto che la Russia, storica alleata della Serbia, continua a porre il veto a qualsiasi passo verso l´indipendenza, sostenuta invece da Washington e da molte capitali Ue. Una posizione ribadita ieri dal ministro degli Esteri Sergei Lavrov, secondo cui «le scadenze artificiali imposte dall´esterno non sono vincolanti» e l´indipendenza del Kosovo violerebbe il diritto internazionale.
Intanto l´Europa cerca di evitare nuove imbarazzanti spaccature, con la maggioranza dei governi pronta a riconoscere l´indipendenza ma tenuta al palo da una manciata di capitali, contrarie questa presa di posizione nel timore di creare un pericoloso precedente. Per questo oggi i ministri degli Esteri tratteranno i punti su cui c´è possibilità di intesa: innanzitutto saranno preparate le conclusioni del vertice dei leader Ue di venerdì in cui ribadire che il futuro di Belgrado e di Pristina è all´interno dell´Ue (un modo per stemperare le animosità). Inoltre si cercherà un accordo per consentire ai premier di dare il via libera alla missione civile europea in Kosovo chiamata a passare alla Ue la responsabilità della gestione amministrativa di Pristina, oggi sulle spalle dell´Onu.


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LA REPUBBLICA 10/12/2007
GUIDO RAMPOLDI
I TROPPI ERRORI DELL´EUROPA DI FRONTE A UNA POLVERIERA. BELGRADO - Per quanto penosa sia stata in questi anni la performance della politica europea nei Balcani, forse soltanto nel 1990-91 si può ritrovare la somma di improvvisazione, supponenza e deficit di pensiero strategico con la quale l´Unione arriva all´indipendenza del Kosovo. Come allora la gran parte dei governi continentali non capì cosa avrebbe comportato il collasso della federazione jugoslava, e anzi alcuni si adoperarono per quel risultato immaginando di trarne chissà quale vantaggio, così oggi quasi tutta l´Europa maggiore pare non vedere le micce a lenta combustione che essa stessa sta per innescare. Prevale la sensazione che il Kosovo, più piccolo dell´Umbria, sia irrilevante: una piccola pedina finita casualmente su una scacchiera enorme.
Ma né irrilevanti né minuscole sono le questione che l´indipendenza trascina.
Occorre innanzitutto prendere atto che in Kosovo gli occidentali hanno filato senza accorgersene una matassa mostruosamente aggrovigliata. Gli americani hanno promesso a cuor leggero l´indipendenza, e gli europei che contano si sono accodati. Magari a malincuore, ma si sono accodati. Non perché fossero convinti, ma perché in questo momento Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia non hanno alcuna convenienza a contraddire Washington su un tema che non coinvolge i loro interessi primari. Questi invece si giocano sui due tavoli limitrofi dove sarà deciso quali nazioni entreranno nel Consiglio di sicurezza riformato e quali assumeranno di fatto la guida della baraonda europea. Una delle precondizioni per candidarsi a quei ruoli, o almeno per evitare le soluzioni più sgradite, è l´appoggio degli Stati Uniti: da qui lo scodinzolare francese, la timidezza tedesca, la circospezione italiana, in aggiunta alla tradizionale remissività britannica. Ma il punto è che americani ed europei non possono disporre a piacimento di un territorio sul quale non hanno alcuna sovranità legale. Quella appartiene alla Serbia, come è scritto perfino nel preambolo della Risoluzione 1244, per la quale la Nato oggi è in Kosovo con l´indispensabile mandato delle Nazioni Unite. Dunque Belgrado può rinunciare volontariamente alla propria sovranità, ma non può esserne spogliata neppure dalle Nazioni Unite. Tantomeno da una coalizione di Paesi, l´Alleanza atlantica.
I confini non si cambiano con la forza: di fatto questa è l´unica norma chiara, e finora universalmente condivisa, che dalla Guerra fredda ad oggi abbia garantito un senso alla formula «legalità internazionale». Abrogarla significa addentrarsi dentro una giungla hobbesiana dove tutto diventa possibile.
Questo certo non è l´interesse americano. E infatti Washington ha cercato di camuffare l´enormità dell´indipendenza affermando che il Kosovo è «un caso sui generis», la definizione del sottosegretario Burns. Il guaio è che i casi sui generis fondano, appunto, un genere. E in futuro potrebbero scoprirsi come appartenenti a quel genere, per esempio, le enclaves russe in Georgia che Mosca sostiene. O i territori popolati da minoranze russe in Ucraina, nel Baltico, in Asia centrale. Senza contare le minoranze dell´Europa orientale, cominciando dai i magiari della Transilvania rumena, della Slovacchia, della Vojvodina. In altre parole l´indipendenza del Kosovo potrebbe diventare un pretesto, domani, per secessionismi e annessionismi, soprattutto se la Russia decidesse di esercitare la propria protezione su questa o quella minoranza.
Ma senza dover lavorare d´immaginazione, per scoprire in quali labirinti conduca il «caso sui generis» basterà attendere l´inizio del prossimo anno, quando il Kosovo proclamerà l´indipendenza.
Immediatamente i serbi di Mitrovica, al confine con la Serbia, annunceranno il loro rifiuto di secedere la loro obbedienza alla capitale legittima, Belgrado. Li potrebbero imitare le enclaves serbe del sud. E questo metterebbe in enorme imbarazzo l´Unione europea e la Nato. Considerare quei serbi "secessionisti"? Davvero difficile. Riconoscere il loro diritto al rifiuto? Ancora più complicato. Può l´Unione accordare il diritto all´autodeterminazione agli albanesi e negarlo ai serbi? E se lo riconosce ai serbi, può negarlo alle altre minoranze del Kosovo, una dozzina? Come si vede, quando il principio di autodeterminazione perde quel limite, l´intangibilità dei confini, si trasforma a valanga nel principio di frammentazione infinita.
Questo fu chiaro fin dall´inizio della dissoluzione dell´ex Jugoslavia, quando uno spirito beffardo telefonò ad un´agenzia di stampa e annunciò la secessione del suo villino e del giardino circostante. Ma almeno la Costituzione federale confusamente riconosceva alle Repubbliche il diritto di secedere. Il Kosovo non è mai stato una Repubblica, e secondo qualsiasi legalità, interna o internazionale, non ha più diritto all´indipendenza di quanto ne abbiano le Province basche, la Corsica o il Comune di Ponte di Legno e frazioni limitrofe.
Ovviamente la Serbia potrebbe aiutarci a dipanare questo groviglio accettando non solo nei fatti ma anche formalmente la secessione del Kosovo.
Dopotutto Belgrado si rende conto che la provincia albanese oggi è soprattutto un fardello. E rinunciandovi potrebbe ottenere una corsia preferenziale per entrare nell´Unione. In via ufficiale questo baratto non è mai stato proposto (né sarà proponibile finché Belgrado non consegnerà i Mladic e i Karadzic al Tribunale dell´Aja). In segreto, è possibile che il governo serbo abbia preso impegni e ricevuto garanzie. Ma perfino se esistesse un patto, soprattutto sul medio termine, questo darebbe lo stesso affidamento degli accordi euro-jugoslavi del 1990, che in capo a pochi mesi erano carta da macero. In primo luogo perché la politica serba non ha ancora trovato un assetto definitivo.
Grossomodo la Serbia oggi è filo-europea, ma anche tentata dall´offerta di protezione russa. Grossomodo è democratica, ma un terzo dell´elettorato vota per i partiti degli imputati dell´Aja.
Grossomodo sta cominciando a fare i conti con le proprie colpe, enormi, ma tra mille esitazioni. E non riuscirà a completare quel passaggio fondamentale fin quando l´Europa non affermerà nei fatti che i serbi non sono stati soltanto i carnefici, ma talvolta anche le vittime: se non fosse così le loro città non pullulerebbero di profughi. Applicare alla Serbia soltanto lo schema punitivo, e nel caso del Kosovo violando il fondamento della legalità internazionale, equivale a lasciar sedimentare un risentimento che prima o poi tornerà in superficie.
Quale poi sia la razionalità strategica della politica euro-atlantica verso Belgrado, attendiamo di capirlo. Favorendo l´indipendenza del Montenegro e permettendo alla criminalità albanese una presenza organica nel governo del Kosovo, gli astuti occidentali sono riusciti a cogliere due interessanti risultati: hanno aiutato la Russia a tornare nei Balcani e hanno fortificato il network criminale che spadroneggia in Adriatico. I russi si stanno comprando le coste montenegrine. Oggi costruiscono alberghi, domani porticcioli turistici, dopodomani, chissà, un porto militare che materializzi l´incubo delle cancellerie europee a partire dalla fine dell´Ottocento: i russi nel Mediterraneo!
Quanto al Kosovo, un territorio dove si entra e si esce nel più facile dei modi è quanto di meglio potesse sperare la rete globale formata dalle cosche montenegrine, kosovare, albanesi, serbe, croate, turche, bulgare e italiane. I risultati non si sono fatti attendere: l´Adriatico orientale comincia a smistare grandi partite di cocaina sudamericana, oltre a merci più tradizionali (eroina afgana, sigarette, immigrati, ragazze schiavizzate).
Si dirà che stiamo scontando l´attacco Nato alla Serbia, nel 1999. In realtà fu proprio quella guerra che evitò il dilagare di un conflitto slavo-albanese già in corso (nei primi otto mesi del 1998 ben duemila abitanti del Kosovo morirono di morte violenta, quattro volte i civili serbi uccisi dall´aviazione occidentale).
L´errore della Nato fu successivo. Sconfitta la Serbia, per evitare conflitti con la guerriglia albanese l´Alleanza rinunciò in partenza a governare il Kosovo come doveva, cioè con equidistanza e determinazione. E delegò il compito di costruire lo Stato alle Nazioni Unite, che in Kosovo hanno montato la più sconveniente tra le missioni Onu viste negli ultimi anni, l´Unmik.
Finalmente l´Unmik sta per togliere il disturbo, ma con essa sparisce anche quel minimo di apparato giudiziario e investigativo che mimava uno stato di diritto. Dovrebbero subentrare giudici e poliziotti inviati dall´Unione europea, ammesso e non concesso che i 27 trovino un accordo. Ma anche in quel caso, è difficile immaginare che la missione europea lanci l´attacco ad un sistema criminale assai vendicativo, e ben rappresentato nelle istituzioni kosovare. Più probabile che la Ue replichi quella cosuccia furbetta e tremebonda che è stata l´Unmik.
Di tutto questo discuterà nei prossimi giorni il parlamento italiano. Se va bene e la maggioranza tiene, non ci metteremo nei guai sganciandoci dagli alleati e fingeremo che l´indipendenza del Kosovo sia una gran trovata. Poi cercheremo il modo, insieme agli europei ragionevoli, di limitare i danni.
Vasto programma.