varie, 9 dicembre 2007
GRECO Lilli
GRECO Lilli (Italo) Sezze Romano (Latina) 1 giugno 1934. Produttore discografico (Rca) • «[...] è un personaggio pressoché unico nel panorama musicale italiano, un musicista, un produttore burbero e determinato, dotato di una simpatia innata e corrosiva, abituato a scontrarsi con chiunque sull’onda della passione, deciso a brutalizzare i cantanti pur di tirare fuori da loro il meglio (che spesso non sanno di avere), per questo amato e odiato dai “suoi” artisti, uno per tutti Francesco De Gregori, col quale è entrato spesso in rotta di collisione, che nella canzone Marianna al bivio gli ha persino dedicato un verso: “Lilli Greco non capisce, ma che Dio lo benedica”. Nominate Lilli Greco a uno dei tanti cantanti con cui ha lavorato, e sicuramente otterrete un gran sorriso e un’espressione di sgomento, come a ricordare un’esperienza di quelle che segnano. Il racconto, è quello di una grande avventura. Greco arrivò agli studi di via Tiburtina alla fine degli anni Cinquanta, proprio nel momento in cui la Rca stava cambiando rotta. Invece di stampare e diffondere esclusivamente i dischi che arrivavano dall’America, iniziò a produrre artisti italiani, con una crescita rapida, quasi vertiginosa. E anche qui, pare assurdo, c’è lo zampino del Vaticano, che della società manteneva una quota del dieci per cento, e ne aveva affidato la direzione al fedele conte Enrico Pietro Galeazzi. Nel 1954, le cose andavano male, e si era sul punto di chiudere. Pio XII che, chissà perché, a questa cosa teneva enormemente, tenne duro e fece nominare direttore un suo brillante giovane segretario, Ennio Melis, il quale fu di fatto l’iniziatore di quell’avventura. La cosa ancora più singolare è che Melis ottenne carta bianca dal suo mentore. E ne approfittò, con audacia e libertà, producendo quella che è stata una parte della laicissima, a volte perfino irriverente, storia della canzone italiana, facendo dimenticare quell’originale ombrello pontificio. Attraverso quei solchi sono passati praticamente tutti, dai primi vagiti cantautorali di Modugno e Paoli, Tenco, Sergio Endrigo e Nico Fidenco, fino al surreale esordio di Gianni Meccia con i suoi barattoli rotolanti e pullover amorosi, continuando con la allegria adolescenziale di Morandi e Rita Pavone, poi ancora il beat, con Patty Pravo, i Rokes, allargando poi alla nuova canzone d’autore di Venditti e De Gregori, Lucio Dalla, Riccardo Cocciante, e ancora Baglioni, Renato Zero, Ciampi, Paolo Conte, Gabriella Ferri, Nada e tanti altri. E quasi sempre c’è lo zampino di Lilli Greco. [...] un’era felice della discografia, un mondo di esperimenti, di invenzioni, quando il mercato, seppure interessato all’aspetto commerciale, era ammaliato da un travolgente vento artistico e tutti si comportavano di conseguenza: tecnici, direttori artistici, produttori, cantanti. Gli episodi di questi primi anni sono irresistibili: la descrizione di Gianni Meccia che girava nei corridoi e cantava, quando poteva, le sue canzoni a tutti per riuscire a farsi prendere sul serio, la genesi de Il mondo di Jimmy Fontana, la vendetta di Anna Moffo, a cui aveva tagliato alcuni acuti eccessivi, che si fidanzò con un’importante dirigente della Rca americana e pretese che gli acuti tagliati fossero reinseriti, l’allegria contagiosa della sedicenne Rita Pavone, le litigate con Venditti e De Gregori, gli scontri con Patty Pravo, le follie e la genialità di Gabriella Ferri. La scoperta di Paolo Conte, l’opera di persuasione per convincerlo a cantare lui stesso le sue canzoni e a salire su un palcoscenico. Quello di Paolo Conte è un episodio che da solo spiega le profonde differenze tra ieri e oggi. Conte era riottoso, disinteressato al successo, non era convinto di dover andare oltre la scrittura dei pezzi, e poi le sue canzoni non le capiva nessuno. Quando Greco e Mimma Gaspari riuscirono a organizzare delle serate al teatro Centrale di Roma, la sala restò deserta per una settimana. Ma con la complicità di Ennio Melis, Greco decise di insistere e, a poco a poco, si formò il mito di Paolo Conte. C’era amore, passione, si credeva in un artista fino in fondo, si insisteva, si rischiava. Il marchio Rca era celebre, suggestivo, incuteva rispetto, era un punto di riferimento fondamentale per l’area romana, ma non solo. Era l’unica casa americana ad aver impiantato una sede autonoma nel nostro Paese col compito di lavorare sul catalogo italiano. Anni dopo l’avrebbero imitata anche la Sony, la Emi, la Warner, la Polygram, ma per molti anni la Rca è stata l’unica a competere con le italiane, allora potenti, come la Ricordi, la Cgd e la Fonit Cetra. [...] Negli studi della Rca ci si sforzava di raggiungere gli standard produttivi dei dischi americani, si introdussero compressori, echi, nastri multitraccia, alcuni geniali tecnici realizzarono una vera e propria rivoluzione del suono, e Greco racconta l’intreccio che questa progressione creava con la parte più squisitamente artistica. I nuovi gruppi beat, i cantautori, portavano canzoni insolite, con forme ardite che trattavano degli argomenti più disparati, canzoni che avevano bisogno di essere “vestite” con abiti moderni. Furono chiamati giovani promettenti arrangiatori come Ennio Morricone e Luis Bacalov, e pochi sanno che la maggior parte di quello che oggi riconosciamo come il tipico suono delle canzoni degli anni Sessanta, porta soprattutto la firma di questi due musicisti. Da Se telefonando a In ginocchio da te, da Cuore di Rita pavone a Sapore di sale di Gino Paoli, con tanto di assolo al sax di Gato Barbieri, alla voce “arrangiatore” compare immancabilmente o l’uno o l’altro. Prima ancora c’era stato Armando Trovajoli. Più che una semplice casa discografica la Rca era un laboratorio, un luogo operoso e articolato dove si partiva dalla ricerca dei nuovi talenti e si arrivava alla stampa del vinile che finiva nei negozi. Studi di registrazione, uffici direttivi e presse erano nello stesso complesso. Al bar, al mitico bar dell’azienda, si incontravano operai, cantanti, autori, dirigenti, in un clima oggi impensabile in quel che rimane del mondo discografico. [...]» (Gino Castaldo, “la Repubblica” 9/12/2007).