Luida Muraro, il manifesto 6/12/2007, pagina 2, 6 dicembre 2007
«Spe Salvi», quello che nessun Dio (e nessun papa) può fare il manifesto, giovedì 6 dicembre Sembra a volte che qualcuno vicino al papa voglia danneggiarlo, oltre ai danni che lui stesso è capace di farsi
«Spe Salvi», quello che nessun Dio (e nessun papa) può fare il manifesto, giovedì 6 dicembre Sembra a volte che qualcuno vicino al papa voglia danneggiarlo, oltre ai danni che lui stesso è capace di farsi. Mi riferisco a certe presentazioni della sua seconda enciclica, Spe salvi, «Salvati dalla speranza», come che lì ci fosse la condanna del marxismo e cose simili. Il testo della seconda enciclica è lontanissimo dal linguaggio delle condanne, ricco invece di critiche e di proposte che non possono non interessare quelli che hanno concepito la speranza di grandi cambiamenti. Da dove escono certe sintesi rozze e fuorvianti? Una risposta secondo me esiste, senza dare la colpa ai giornalisti. Ma prima vediamo le critiche. L’errore del marxismo, secondo il papa, sarebbe di aver nutrito la speranza di una società senza ingiustizie, dimenticando che l’uomo resta libero anche per il male. Qui egli usa una formula con la quale non sono d’accordo: «il suo vero errore è il materialismo», come se il materialismo fosse sinonimo di determinismo. Non lo è quello di Marx, il cui guadagno teorico neanche il papa può respingere, perché contiene una verità. Altrimenti si finisce nello spiritualismo e in ciò sono d’accordo con una critica che Ida Dominijanni muove alla Spe salvi. Quanto all’ateismo moderno, marxismo compreso, la critica si trova nelle pagine dedicate al «giudizio finale», che riescono a tradurre nell’oggi una tematica che era quasi scomparsa dalla cultura religiosa. Forse, solo un papa ferrato in teologia ed esegesi come Ratzinger poteva spingersi così avanti. A noi il cosiddetto giudizio finale è presente solo per certi capolavori della pittura, Giotto nella Cappella Scrovegni, Signorelli nel Duomo di Orvieto, la Cappella Sistina. Da questo grandioso immaginario Ratzinger ci invita però a prendere le distanze. Primo, perchè nell’arte gli aspetti terribili e paurosi hanno prevalso sullo splendore della speranza (da parte sua, una specie di abile autocritica, considerato che gli artisti erano guidati dai teologi). Secondo, perché a un certo punto occorre rinunciare ad ogni immagine del divino. Per pensare quel tema così distante da noi - e qui ci troviamo in un passaggio cruciale - bisogna ancora che superiamo la separazione tra la ricerca personale della salvezza e quella politica, una affidata alla fede religiosa e l’altra alla fede nel progresso storico. Nel suo contesto, per i suoi scopi, l’autore della Spe salvi fa la stessa mossa della politica delle donne: mettere fine ad una separazione tipica della cultura borghese, fatta per favorire egoismi e ipocrisie a non finire. A questo punto viene la critica dell’ateismo, visto come una protesta contro Dio per le sofferenze di questo mondo. Protesta comprensibile, dice il papa, sbagliata è invece la pretesa che l’umanità possa fare «quello che nessun Dio fa né è in grado di fare». Parole forti. Le più grandi crudeltà e violazioni della giustizia, aggiunge, provengono da quella pretesa. Noi sentiamo che il ragionamento è giusto: senza fare le graduatorie dell’orrore, è vero che la volontà del bene a tutti i costi, forzando i limiti umani, può essere causa di aberrazioni maggiori di quelle indotte dal normale egoismo, e si pensa a Robespierre o a Stalin. Ma si pensa anche alle religioni e ai loro fanatismi, si pensa alla Chiesa cattolica e ai suoi tribunali. Ci ha pensato il papa, scrivendo questo passo? Il testo non lascia trapelare nulla. Ma non importa tanto questo, io dico, quanto andare alla conclusione del discorso: un mondo che si deve creare da sé la sua giustizia è un mondo senza speranza. I movimenti legati al marxismo sono naufragati, e con essi molte speranze e, purtroppo, anche alcune conquiste sociali. Ciò non significa che la partita comunista sia chiusa, ha giustamente affermato Luciano Canfora. Proprio per questo, se accettiamo la necessità di un ripensamento radicale, l’enciclica Spe salvi ci viene incontro. Il contributo principale, secondo me, riguarda la dimensione simbolica dell’agire politico. Non credo che sia corretto ridurre il linguaggio dell’enciclica ad un rivestimento retorico di una dottrina immutata. Chi la scrive, quello che fa è tradurre nel presente testi e persone, come il Vangelo e san Paolo, che, molti secoli fa, hanno cambiato il mondo agendo dall’interno dell’essere umano, persone e testi che, senza potere, avevano un’efficacia performativa (per usare una parola che il papa usa e Dominijanni sottolinea). L’autore sa che il simbolico non soccombe al relativismo storico: con il tempo che passa, infatti, e si mangia tutto, l’ordine simbolico è in un rapporto di equipotenza. Detto alla buona: tutto passa, eppure quando io leggo un libro di mille anni fa e questa lettura mi risponde e m’ispira, i mille anni fa parlano qui e ora. Si tratta, insomma, di quella politica del simbolico che è mancata al movimento operaio, sostituita da un’ideologia sposata fatalmente alla logica del potere, e che il movimento delle donne, invece, ha scoperto di suo, con la pratica dell’autocoscienza, pratica di parola in relazione che trasforma il rapporto che abbiamo con il mondo, e perciò il mondo stesso. Per la seconda volta, mi scopro ad associare questo testo al femminismo: non credo che sia una forzatura, ma piuttosto la correzione di un suo aspetto evasivo. evasivo nell’analisi storica del passaggio alla modernità, di cui ignora come, nella perdita della giusta soggezione verso la natura e nella volontà di eliminare ogni dipendenza, abbia pesato anche la volontà maschile di controllo sulle donne. evasivo, di conseguenza, anche nel delineare le risposte che possiamo dare alla perdita della speranza, che domina l’odierna cultura occidentale: nel disegno, manca il sapere delle donne. Vorrei lamentare un’altra lacuna, meno grave, un peccato veniale, di questo testo, ed è l’ignoranza di Giacomo Leopardi. Nella biblioteca di Joseph Ratzinger non c’è lo Zibaldone, me lo fa pensare quel breve passo in cui dice che «già nel sec. XIX esisteva una critica alla fede nel progresso» e non nomina nessuno dei tanti che poteva. Ma Leopardi avrebbe dovuto, perché non c’è nulla di quello che lui scrive sul culto della ragione e sulla fede nel progresso, che Leopardi non abbia già scritto, e forse meglio di lui, culto e fede che, neanche per Leopardi, possono validamente subentrare alla religione. O forse, se il nome non compare, non è per ignoranza, ma perché il nostro poeta-filosofo all’ottimismo risibile della fede secolarizzata non si oppone con un rincaro della credenza in Dio. Qui vengo alla questione che, per me, solleva il testo di Joseph Ratzinger, non a causa di questo o quel difetto, ma proprio per tutto quello che esso mostra di vero e di buono. Lo irradia dalla lettura di grandi testi del cristianesimo nella sua stagione inaugurale, e lo fa arrivare anche a chi non si considera cattolico o credente. Ma ecco che, in questa luce, anche il papa, non diversamente da noi altri, comune umanità, ci appare paradossalmente ma inevitabilmente «ateo e marxista». Ossia, uno che parla di Dio credendo di sapere quello che dice, che pretende di avere la verità in tasca, che presume di sanzionare il bene e il male, che si candida a risolvere i problemi degli altri non avendo risolto i suoi. In queste mie parole non è implicita un’accusa d’incoerenza e tanto meno un rigetto delle sue parole, non c’è l’aspettativa che l’autore rispecchi fedelmente le grandi cose che ha detto. Il rispecchiamento non è né possibile né richiesto. Nelle mie parole c’è la semplice costatazione che il papa non può, né personalmente né istituzionalmente, presumere di stare in una qualche forma di proporzione con il vero e il giusto delle sue parole, perché non gli appartengono in alcuna maniera. Oppure sì, ma solo per l’aspetto caduco e opaco, il resto essendo luce che viene da un’altra parte. La tradizione mistica la sapeva ed è significativo che qua e là, nel testo dell’enciclica, ci siano formule che la richiamano, come «questo sapere che non sa», «questa sconosciuta conosciuta realtà». Il paradosso nasce dal fatto che, nella logica di questo mondo così come funziona di suo, la verità non dà titoli di credito a chi la dice, così come la bontà non li dà ai buoni, proprio a causa del suo materialismo, che non è un errore ma un fatto, riscontrabile in Vaticano come a Milano o dove vi pare. Dovunque e sempre, nella stessa misura? Non lo so. Sarebbe comunque questo paradosso a indurre le sintesi rozze e fuorvianti che dicevo all’inizio: si cerca di sanarlo traducendo la Spe salvi nella logica di questo mondo, per colmare un intervallo non colmabile. Mi sono chiesta se ciò sia dovuto a una condizione storica contingente, come un provvisorio esaurimento delle capacità di mediazione. Oppure se, al contrario, siamo arrivati nel culo del sacco (traducendo dal francese, ma si dice così anche nel mio dialetto, senza le doppie) della storicità, quasi alla vigilia di un nuovo inizio. Non lo so. Luisa Muraro