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 2007  dicembre 13 Giovedì calendario

Vanity Fair, giovedì 13 dicembre Catania, piazza Dante, ore 19. Piera Aiello, 40 anni, la ”testimone storica” del giudice Paolo Borsellino, attraversa il cortile dell’ex monastero dei benedettini scortata da agenti in borghese

Vanity Fair, giovedì 13 dicembre Catania, piazza Dante, ore 19. Piera Aiello, 40 anni, la ”testimone storica” del giudice Paolo Borsellino, attraversa il cortile dell’ex monastero dei benedettini scortata da agenti in borghese. "Sono i miei angeli custodi dal 1991", dice entrando nell’auditoriurri che carabinieri e Digos pattugliano come un’aula bunker. E spiega: "Oggi è il giorno del mio ritorno ufficiale in Sicilia. Vado nelle scuole a parlare di mafia e a raccontare la mia storia". Una storia di sangue, coraggio e dolore, che anche Rita Borsellino, sorella del inagistrato ucciso con un’autobomba del’92, ha contribuito a ricordare a Catania al convegno "Donne contro" (organizzato tra gli altri da Nadia Furnari, presidente dell’associazione antimafia Rita Atria). "Mio fratello Paolo", racconta, "stimava moltissimo Piera, per il suo coraggio". Piera Aiello si presenta in cappotto e pantaloni neri, i capelli corvini, un filo di eyeliner sugli occhi. Da sedici anni è una testimone di giustizia, vive in località protetta con un altro nome. Per ragioni di sicurezza non può essere fotografàta. "Nella mia nuova vita ho un marito, due figlie e un lavoro, ma nel mio cuore resterò sempre Piera", dice con un sorriso. che svanisce quando accusa: "Lo Stato non tutela i testimoni di giustizia, promette mari e monti e poi li abbandona. Se potessi tornare indietro rifarei tutto, ma voglio che la gente sappia che cosa succede a chi segue il mio esempio". Come è diventata una testimone di giustizia? "Nel giugno del 1991 mio marito Nicola è stato ucciso dalla mafia. Ho denunciato i suoi killer al giudice Borsellino". Una decisione dettata dal dolore? "Dall’esasperazione. Mio marito era un malvivente, suo padre era Vito Atria, il boss di Partanna (in provincia di Trapani, ndr). Sono stata costretta a sposarlo". In che senso? "Mi sono innamorata di Nicola a 14 anni. Venivo da una famiglia onesta, non sapevo chi fosse in realtà. E quando l’ho scoperto era troppo tardi". Perché? "Avevo 18 anni e lui voleva sposarmi, io invece volevo lasciarlo. Suo padre mi disse che potevo far soffire Nicola quanto mi pareva, ma che per lui ero già sua nuora. Aggiunse: "Ricorda che tutti abbiamo una fàmiglia". Capii che avrebbe fatto del male ai miei genitori". Poi che cosa accadde? "Due giorni dopo le nozze mio suocero fu ucciso. Era il 18 novembre 1985". E suo marito? "Cercai di convincerlo a parlare con i carabinieri. E iniziarono i litigi, perché io volevo che cambiasse vita". Perché non l’ha mai denunciato? "Minacciavo di farlo e lui mi picchiava. Poi sono rimasta incinta. In casa era la guerra: trovavo sacchetti di cocaina e li buttavo nel water. Mi massacrava di botte. Anche quando ero all’ottavo mese mi ha riempita di calci e pugni". E’vero che voleva entrare in polizia? "Ho vinto il concorso, ma mi hanno bloccata perché nuora di un boss ucciso". Suo marito lo sapeva? "Ha cercato di impedirmelo. Io sono andata lo stesso a Roma per le prove scritte. Al ritorno mi ha detto: "Magari ci fa comodo una poliziotta in fìmiglia". Gli ho risposto di cambiar vita, altrimenti lo avrei arrestato. E, invece, ha tentato di vendicare suo padre". Come? "Ha assoldato un killer, ma l’agguato è fallito. Sapeva che non l’avrebbe passata liscia. Girava armato, mi costringeva a tenere un mitra nella carrozzina di nostra figlia. Una sera, due sicari lo hanno ucciso sotto i miei occhi nella pizzeria che avevo aperto da tre giorni". Li ha riconosciuti? "Sì, anche se avevano il volto coperto. Li avevo visti a cena poche sere prima. Non li ho denunciati subito, perché non sapevo a chi rivolgermi. Per giorni, dopo l’ornicidio, sono stata perseguitata e controllata a vista dai mafiosi". Com’è arrivata a Borsellino? "Attraverso un maresciallo dei carabinieri che aveva capito la situazione. Mi ha detto di trovare una scusa per andare a Terrasini e incontrarlo". Che impressione le ha fatto? "Borsellino parlava con un accento molto marcato e ho pensato che fosse un mafioso. Mi ha rassicurata e io l’ho chiamato onorevole. Mi ha risposto: "Con tutto il rispetto per la categoria, io sono solo un sostituto procuratore della Repubblica". Ho capito che potevo fidarmi". E ha parlato? "Si. Sapevo tutto di Nicola. Conoscevo i suoi amici e avevo annotato su un diario date, nomi, fatti. Borsellino mi ha detto che dovevo dimenticare la Sicilia. Tre giorni dopo, assieme alla mia bimba di tre anni, Vita Maria, ero a Roma. Ero entrata nel programma di protezione". E poi? "All’inizio è stato terribile, ero sola, in una città che non conoscevo. Un giorno è arrivato a casa un signore che voleva darmi un milione e duecentomila lire. L’ho sbattuto fitori e ho telefonato a Borsellino. Si è messo a ridere: mi ha spiegato che quei soldi mi servivano per vivere, perché i miei documenti erano stati ritirati, ero in attesa di un nuovo nome, ma senza quello, senza nuovi documenti, non potevo lavorare". Quando è arrivato il nome? "Solo nel 1997, quando sono uscita dal programma di protezione". Come mai così tardi? "Non lo so... Uno dei tanti disservizi". Ha protestato? "Non subito. All’inizio ero fiduciosa. Soprattutto dopo che, nel novembre del ’91, era arrivata Rita". Chi è Rita? "Mia cognata, la sorella di mio manito. Aveva 17 anni quando seguì il mio esempio. La mafia aveva capito che stava per passare dalla parte della giustizia e cercò di ucciderla. Il giorno dopo era da me in località protetta". La fiamiglia come reagì? "La madre denunciò Borsellino per sottrazione di rumore. E rinnegò Rita. Lei ormai aveva solo me e "zio Paolo", il giudice. Lo amava come un padre". Com’era la vostra vita a Roma? "Una vacanza. Esploravamo la città, facevamo shopping. Ma durò poco. Il 19 luglio 1992 sentimmo alla tv che Borsellino era stato ucciso. Rita mi guardò e disse: Piera, è finito tutto". Il giorno dopo arrivò un funzionario del Servizio centrale per dirci che molti testimoni stavano ritrattando. Io risposi che per me era un motivo in più per andare avanti. Rita non disse nulla. Una settimana dopo si buttò dal balcone". Lei era in casa? "Il giorno prima ero stata trasferita in Sicilia. Sono tornata per riconoscere il corpo. La Chiesa le ha negato i funerali. Adesso Rita sta in una tomba senza nome. Noi lo scriviarno su un foglio e la madre, o qualcun altro, lo strappa via". La sua situazione è peggiorata? "Per tre mesi mi hanno controllata notte e giorno, temevano che mi uccidessi. Poi sono andata in un ex convento di clausura con la mia bimba. Ero senza documenti, uscivo solo per andare al processo". Quanto ci è rimasta? "Dopo un anno ho cercato una nuova casa. Dovevo pensare a mia figlia. Ma non è stato facile, perché non mi davano il nome di copertura. Per 7 anni ho vissuto come un fantasma. Un giorno sono stata male e mi hanno ricoverata in ospedale. Non avevo il codice fiscale: un carabiniere mi ha fatta passare per sua moglie. Anche mia figlia ha avuto problerni". Quali? "Per iscriverla alla prima elementare ho dovuto supplicare il preside della scuola di registrarla con un altro nome. Gli ho spiegato che ero una testimone di giustizia. Per fortuna era un uomo di cuore". Non ha protestato con il ministero dell’Interno? "Sì, ma si sono ricordati che avevo una bambina solo dopo tre anni. Il Servizio centrale di protezione non funziona". E’ un’accusa grave. "E’ la verità. Non è solo un problema di leggi: se i funzionari fossero più umani, forse certe cose non accadrebbero". In che senso? "Non puoi trattare con indifferenza una donna che protesta perché non può iscrivere la figlia a scuola. Chiedevo solo che lo Stato rispettasse le sue promesse". Quali? "AI nome di copertura e il reinserimento nella località protetta. Con me non l’hanno fatto. E non sono l’unica: all’associazione antimafia Rita Atria, che lotta per i diritti dei testimoni (www.ritadria.it), arrivano ogni giorno lettere di protesta". Che cosa si può fare per aiutarli? "Basterebbe non portarli via dalle loro case, proteggerli sul posto. Ci sono imprenditori che hanno dovuto chiudere la loro azienda e non hanno più un lavoro. Io per trovarlo sono dovuta uscire dal programma di protezione". La domanda è stata accolta subito? "Dopo pochi mesi. Nello stesso giorno mi hanno dato i nuovi documenti. Sono scoppiata a piangere". Tamara Ferrari