Mauro Covacich, Vanity Fair 13/12/2007, pagina 221., 13 dicembre 2007
Vanity Fair, giovedì 13 dicembre Una bella mattina di fine novembre, sto visitando a Roma la mostra dedicata a Stanley Kubrick al secondo piano del Palazzo delle Esposizioni, dalle finestre si vede il chiarore del sole, e io, giunto in una certa sala di cui vi dirò, mi chiedo – d’un tratto non posso non chiedermelo -: di che abbiamo paura quando abbiamo paura? Abbiamo paura degli zombie che avanzano nella notte con gli occhi pieni di vermi? Abbiamo paura della faccia sfigurata di Nightmare? Abbiamo paura di Hannibal Lecter? Abbiamo paura delle varie matres di Dario Argento? Delle tombe scoperchiate, delle porte cigolanti, dei lamenti dentro i muri? Abbiamo paura deI1’horror? Be’, non tanto, l’horror è quel genere di paura che cerchiamo, quel genere di paura che ci diverte
Vanity Fair, giovedì 13 dicembre Una bella mattina di fine novembre, sto visitando a Roma la mostra dedicata a Stanley Kubrick al secondo piano del Palazzo delle Esposizioni, dalle finestre si vede il chiarore del sole, e io, giunto in una certa sala di cui vi dirò, mi chiedo – d’un tratto non posso non chiedermelo -: di che abbiamo paura quando abbiamo paura? Abbiamo paura degli zombie che avanzano nella notte con gli occhi pieni di vermi? Abbiamo paura della faccia sfigurata di Nightmare? Abbiamo paura di Hannibal Lecter? Abbiamo paura delle varie matres di Dario Argento? Delle tombe scoperchiate, delle porte cigolanti, dei lamenti dentro i muri? Abbiamo paura deI1’horror? Be’, non tanto, l’horror è quel genere di paura che cerchiamo, quel genere di paura che ci diverte. Semmai l’horror ci aiuta a riconoscere il luogo da cui esce ciò che ci spaventa davvero. Noi siamo spaventati dall’ignoto, e il luogo dell’ignoto è per eccellenza il buio. Noti sapendo che cosa si nasconde nel buio, il buio diventa il luogo dentro il quale può nascondersi qualsiasi cosa. Il buio è l’altra stanza senza luce, è l’altra stanza, è l’altro. Il buio è il volto dell’altro, dell’estraneo, dello straniero. Non basta la ragione a tenere a freno i nostri istinti - mio nonno mi diceva sempre: "Ricordati che al buio neanche gli altri vedono te" - ciò che non conosciamo ci terrorizza immensamente di più di ciò che conosciarno. Come i bambini che eravamo, noi temiamo ancora l’uomo nero. Stiamo in guardia armati di videocitofono contro il male che viene da fuori. Alla fine bisogna ammetterlo, la nostra paura è intrinsecaniente xenofoba. Che cosa porterà lo xenos, l’ospite, quando verrà a trovarci? Che cosa avrà nelle tasche? Che cosa ci farà quando apriremo? Là fuori non si vede niente e, come se non bastasse, lui ha la faccia scura. Se vogliamo, il meccanismo psicologico della suspense si regge proprio sull’aspettativa condivisa secondo la quale il male arriverà sicuramente da lì, da quell’oscurità - Non aprite quella porta - e da coloro che da quell’oscurità sono pronti a uscir fuori con le loro facce sconosciute. Invece alle volte il male non viene dal buio. Molto più spesso di quanto si pensi, il male viene dal chiaro. La sala che sto visitando è quella di Shining ("luccicanza"). E’ tutta una meraviglia questa mostra - sceneggiature zeppe di note autografe, costumi di scena, filmati inediti, ricostruzioni in scala di prototipi usati nei vari film - ma la sala di Shining è forse la più emozionante. C’è il dattiloscritto originale di Jack Torrance, "Il mattino ha l’oro in bocca" ripetuto milioni di volte su una risma di carta ingiallita. C’è la steadicam inventata per l’occasione e installata su quella specie di sedia a rotelle che seguirà in pseudo-soggettiva il piccolo Danny nella sua spaventosa pedalata in triciclo per i corridoi dell’Overlook Hotel, forse la sequenza più geniale della storia del cinema. C’è il plastico del labirinto. Ci sono formidabili backstage, come quello in cui Kubrick studia l’inquadratura con il viewfinder mentre Nicholson prova la scena dell’assedio finale alla povera Wendy. C’è ovviamente anche l’ascia che fu di Mister Grady, il guardiano di cui Torrance/Nicholson ha assunto le veci nonché il destino omicida. E ci sono - oh sì, tremate - ci sono i vestiti delle gemelline. La sala è gremita di persone eccitate quanto me per il contatto ravvicinato con i materiali della paura ed è proprio aggirandomi tra questi oggetti con loro che realizzo una cosa cui non avevo mai pensato prima: Shining è l’unico film horror che si svolge in piena luce. I protagonisti arrivano all’Overlook Hotel in una splendida giornata di sole, gli interni dell’albergo resteranno perfettamente illuminati per tutto il film, le scene più mostruose - le apparizioni delle gemelline, le allucinazioni di Jack Torrance, le cascate di sangue, l’assedio a colpi d’ascia della camera di Wendy… ma ogni spettatore ha la "sua" scena più mostruosa - avvengono tutte alla luce del giorno, in quella che dovrebbe essere la nuova casa dei protagonisti. Quindi, niente buio, e niente estranei che bussano alla porta. Questo rovesciamento dei più ovvi canoni del macabro diverita - solo ora me ne rendo conto - particolarmente significativo, vorrei dire parlante, riguardo alle dinamiche reali della conclamazione del male. Né Kubrick né Stephen King (che ha scritto il romanzo omonimo da cui è nato il film) avevano intenzione di dar vita a un’indagine sulla violenza riella società odierna, ma, una volta riconosciuta l’eccezionale "luminosità" del film, è davvero difficile non considerarne la valenza simbolica. Tu puoi blindarti in casa e sei in pericolo. Puoi guardarti da marocchini, albanesi, zingari, romeni e sei in pericolo. Puoi guardarti dagli sconosciuti e sei in pericolo. Puoi guardarti dai pazzi e sei in pericolo. Ecco, i pazzi, ad esempio. Nonostante il bombardamento mediatico sul cosiddetto gesto di follia - il famoso, hollywoodiano raptus - tutti gli ultimi fatti di nera hanno avuto al centro persone lucide, consapevoli, di cui è stata provata la sanità mentale. Ma soprattutto la stragrande maggioranza degli omicidi all’onore delle cronache è avvenuta per mano di gente amica. Condannati o anche solo indiziati che siano, ecco il figlio a Verona, la figlia a Novi Ligure, la madre a Cogne, i vicini di casa a Erba, il fidanzato a Garlasco, gli amici a Perugia. Ecco Shining, la visione allucinata per troppa luce, il male che viene dall’interno. Te ne puoi stare tranquillo sul divano di casa e sei in pericolo. Puoi attivare il sistema di allarme e sei in pericolo. Chi l’avrebbe detto. Torniamo al film: uno scrittore ottiene l’incarico di governare un grande albergo durante la chiusura invernale, così da potersi dedicare in assoluta tranquillità alla stesura del suo romanzo. Che cosa c’è di più innocuo? Non vivrà in solitudine, ma porterà con sé la sua allegra famigliola. Può immaginare, la povera Wendy, che cosa l’aspetta nella sua nuova fastosa casa piena di luci? Che genio, penso uscendo dal Ralazzo delle Esposizioni. Ha manipolato il codice genetico del nostro immaginario horror, quello brevettato nei Racconti del mistero del grande Edgar Allan Poe, con le scenografie gotiche, le tombe, le cantine, le armature, le finestre che sbattono, i respiri al buio - il Buio. Ha girato la storia più sanguinaria e orrorifica che si possa immaginare ambientandola nell’aura sacra del focolare domestico. Che profanazione, penso. Che involontario realismo. Mentre scendo gli scaloni del museo continuo a elucubrare sulla grandezza di Kubrick, e solo alla fine di via Nazionale mi accorgo che sto facendo queste considerazioni sul "male antico" il giorno dedicato a combattere la violenza contro le donne. Me ne accorgo perché incrocio il corteo. Sono tante, tantissime. Sfilano in falangi compatte, perlopiù trentenni, quarantenni, vestite come le loro madri negli anni’70. Ce l’hanno con il pacchetto antiviolenza appena varato dal governo. A un certo punto urlano: "Se la violenza è sotto al tetto, cosa faccio con questo pacchetto". Mauro Covacich