Laura Laurenzi, la Repubblica 6/12/2007, 6 dicembre 2007
VARI PEZZI SU PUCCINI FATTI DA REPUBBLICA IL 6/12/2007
Può definirsi infedele un artista che ha continuo bisogno di innamorarsi per potere creare? Puccini era così. Non lo nascondeva. Anzi, amava definirsi «un potente cacciatore di uccelli selvatici, libretti d´opera e belle donne». E alle donne in carne ed ossa con cui ebbe storie importanti si ispirava per le sue eroine. Infedele e nevrotico, mammone, un po´ mascalzone.
Il suo amore più grande, presto fonte di angherie devastanti, durò tutta la vita. Lei, Elvira Bonturi, era la moglie di un droghiere di Lucca, suo amico. La passione divampò irresistibile: Elvira non esitò a piantare in asso il marito, portando con sé una dei due figli, la bambina Fosca, che Puccini crebbe come fosse sua. Lo scandalo fu enorme. Ci vollero vent´anni prima che Puccini potesse regolarizzare l´unione, una volta che Elvira, dal carattere sempre più infernale e di una gelosia che possiamo tranquillamente definire criminale, rimase vedova. Con lei il rapporto fu tempestoso e ambivalente. Era la sua amante sporcacciona, che Puccini nel talamo chiamava "Sporchizia". Secondo numerosi critici molte grandi protagoniste delle sue opere sono in qualche misura specchio di Elvira; certo lui la tradì in continuazione. Ma le restò accanto tutta la vita: non la lasciò neppure dopo il suicidio di Doria, giovane cameriera di casa Puccini che Elvira sospettò fosse l´amante di suo marito. Tanto la insultò, la perseguitò, la calunniò, da spingerla a suicidarsi. L´autopsia accertò che la ragazza, morta dopo cinque giorni di agonia, era vergine. Elvira, querelata per diffamazione, fu condannata a cinque mesi di carcere, che non scontò mai perché Puccini convinse la famiglia di Doria a ritirare la denuncia pagando un indennizzo di 12 mila lire.
La verità era che Puccini amava clandestinamente non Doria ma sua cugina, Giulia Manfredi, cui presumibilmente si ispirò per la figura di Minnie nella Fanciulla del West. Da lei ebbe anche un figlio, di nome Antonio, nato nel 1923.
Impossibile tenere il conto delle amanti. La prima relazione extraconiugale nota fu con Cesira Ferrani, interprete storica di Manon Lescaut. Ci fu poi la love story con la cantante lirica romena Hariclea Darclée, che avrebbe ispirato il maestro per Tosca. Ma l´amore più lungo fu quello con la studentessa torinese Corinna, conosciuta in treno, vent´anni più giovane, che lui chiamava affettuosamente Cori e di cui non si è mai saputo il cognome. Secondo altre fonti Corinne era in realtà una sarta, la torinese Maria Anna Coriasco, da cui il nomignolo Cori. Puccini è ancora innamoratissimo di lei proprio quando, dopo una convivenza di due decadi, fa il grande passo e sposa Elvira. Le scenate in famiglia sono all´ordine del giorno, con pesanti conseguenze sull´umore e sulla creatività del maestro. A scuoterlo dall´apatia interviene Giulio Ricordi, che in una lettera gli scrive: «Ma è possibile che un uomo come Puccini, che è un artista che fece palpitare milioni di persone col fascino delle proprie creazioni, sia divenuto trastullo imbelle e ridicolo fra le mani meretrici di femmina volgare o indegna?». La relazione si complica, Corinna minaccia uno scandalo pubblico che non farà. Il 3 gennaio del 1904 Puccini impalma finalmente Elvira.
Nell´ottobre dello stesso anno conosce Sybil Beddington, signora londinese sposata, melomane, con cui ha una relazione che si trasforma presto in solida amicizia. la volta di Josephine von Stengel, baronessa di Monaco di Baviera, madre di due bambine. La storia dura sei anni. Lei, che nelle sue lettere lo chiama Giacomucci (lui Josy o Busci), gli ispira la composizione della Rondine. L´ultimo amore degno di nota fu quello con Rose Ader, soprano di Odenberg. Pensando alla sua voce, Puccini compose la parte di Liù, in Turandot. E la moglie Elvira? Formidabile incassatrice, ma non certo in silenzio. Lui, da tipico italiano, negava. «Tu colla tua gelosia morbosa e col tuo entourage mi hai avvelenato l´esistenza - le scrisse - e pretendi che io mi prostri chiedendoti scusa, sei pazza! E bene, fa come credi - io parto dolente di aver trovato in te la medesima creatura fatta di puntigli superbi e infarcita di cose false». La moglie era diventata per lui una persona da temere, soprattutto dopo la terribile storia della cameriera Doria morta suicida per colpa sua. Meditò a lungo di lasciarla. Ma non lo fece mai. Non ci riuscì. Il falso menage di coppia continuò fino alla sua morte: «Ormai siamo qui, noi due, sposati per sempre - aveva scritto all´amico Antonio Bertolacci - Siamo qui con questo cattivo amore che non tornerà più quello di prima e chissà che anche prima non fosse cattivo».
ANNA BANDETTINI
Troppo legato ai sentimenti, alle emozioni. Troppo poco epico, eroico, perfino un po´ piccolo borghese dietro l´ossessione per quelle storie d´amore ottocentesche, burrascose, talvolta grossolane che fino a un certo punto ricalcano anche la sua vita. «Piano. Andiamoci piano», invita, con saggezza da guru, Luca Ronconi - sbagliato giudicare Puccini in generale e non attraverso le sue singole opere. Certe idiosincrasie, lo dico non da musicista, sia chiaro, ma da uomo di teatro, vengono molto spesso causate più dalla storia di certe opere che non dall´osservazione specifica su quella opera sola. Prendiamo Bohéme: ci arriva con una tale carica di sentimentalismo… Il fatto è che nelle opere, tanto più della lirica, vediamo il riflesso del pubblico che le ha amate, e se non ci identifichiamo più con i gusti di quel pubblico siamo portati a denigrarle». E dunque? «Dunque, dal momento che si festeggia il 150esimo della nascita, approfittiamo dell´anniversario per cercare in Puccini qualcosa di nuovo piuttosto che le solite conferme».
Luca Ronconi è il regista che firmerà uno degli appuntamenti più attesi dell´anniversario pucciniano: il suggestivo Trittico alla Scala dal 6 marzo. Forse con Turandot il titolo più ammirato di Puccini, si ascolterà con Riccardo Chailly sul podio e un cast di prim´ordine (Juan Pons, Barbara Frittoli, Leo Nucci…) per ognuna delle tre opere: l´amaro Tabarro (su un barcone sulla Senna Giorgietta, sposa del vecchio Michele, ama il bel Luigi. Michele lo scopre, strangola Luigi e lo porta davanti a Giorgetta); il malinconico Suor Angelica (in convento per una antica colpa, si uccide alla scoperta che il figlio è morto) e il beffardo Gianni Schicchi (un signorotto che si scambia con un morto per far cambiare un testamento). Per Ronconi, dopo Manon (un´edizione suggestiva a Bonn nell´82), Tosca nel ´97 alla Scala e la Turandot "nuda", senza costumi e scene dello scorso anno di Torino, è la quarta tappa in quella che, con idee chiarissime, il regista chiama la «drammaturgia dei sentimenti» di Puccini.
«Un certo carattere grossolano delle opere pucciniane- spiega- discende dai testi teatrali, diciamolo deteriori, da cui sono presi i libretti. La Tosca di Sardou non è un capolavoro, i drammi di Belasco ancora peggio. Appena più dignità, ma non vera dignità letteraria, può avere Prevost. La Turandot di Gozzi non è presente nella Turandot. In più la sfera di Puccini resta il sentimento, talvolta anche triviale, ma il fatto che venga ammantato da una decenza piccolo borghese, come fosse una foglia di fico, e nobilitato da una cosa elevata come la musica, lo rende interessante, sottile. Il dissidio, per esempio, che c´è in Turandot non esiste in modo così chiaro in altre figure teatrali, quel non sapere fino a che punto ami o odi. Non solo: Turandot, Tosca… sono donne dure, per niente dolciastre. E ancora di più lo sono le figure del Trittico dove i personaggi sono messi davanti alla morte». Un omicidio nel primo atto, un suicidio nel secondo e uno sberleffo alla morte nel terzo. «Questo atto è il più terribile perché dietro la comicità sfrenata c´è una amarezza profonda quasi per esorcizzare la drammaticità dei due atti precendenti. E parlo di drammaticità perché Puccini non ha mai nulla di tragico. Teatralmente parlando, negli anni in cui scriveva, la tragedia era una eco di epoche passate. Il dramma o la commedia diventano così le forme obbligate per raccontare l´uomo».
Il dramma nella scena di Margherita Palli, diventa lo sprofondare sotto terra: la nave che si inabissa del Tabarro o il lettone gigantesco che scivola del Gianni Schicchi, in uno spazio astratto dietro cui si intravvedono spazi reali, Parigi, il convento… con elementi comuni da un atto all´altro. «Se lo stesso Puccini diceva di farle insieme vuol dire esiste un rapporto, un filo comune tra Suor Angelica che sembra la conclusione del destino delle eroine pucciniane finite in convento per una colpa, il Tabarro dove la colpevole la fa franca ed è l´unica opera di Puccini dove c´è un omicidio diretto e fatto da un uomo… sino alla fine del Gianni Schicchi, dove la profanazione di un cadavere, preso e scaraventato giù dal letto per metterci un vivo, pare un esorcismo irridente. Qual è il filo comune? L´ossessione della morte, non quella naturale, ma come punizione. Fino a quell´ultimo atto dove sulla morte Puccini ci fa una risata».
NICOLA GALLINO
Lasciamo pure da parte il Trittico pucciniano, che è del 1918 ma sta saldamente confitto nel canone senza tempo del melodramma italiano. La Scala quest´anno ha in cartellone ben cinque titoli del Novecento. Cinque proiezioni di quel secolo breve che è così facile amare di testa ma meno di cuore, che è finito da sette anni e non ha ancora smesso di fare paura. Si comincia il 29 gennaio 2008 con Cyrano de Bergerac di Franco Alfano, l´erede designato di Puccini oggi ricordato solo per aver completato il finale di Turandot. Poi due maschere dell´alienazione come il Wozzeck di Alban Berg dal 19 febbraio e l´orwelliano 1984 di Lorin Maazel dal 2 maggio. E dal 18 maggio l´accoppiata fra Il prigioniero di Luigi Dallapiccola e Il castello del duca Barbablù di Béla Bartók: due atti unici che tessono un claustrofobico fil rouge fra le segrete del serial killer e quelle dell´Inquisizione spagnola.
Il prigioniero è il ritorno forse più appassionante. Alla Scala lo dirige Daniel Harding in una nuova produzione con la regia di Peter Stein. Protagonista il baritono Vito Priante, col soprano Paoletta Marrocu nella parte della Madre e il tenore Kim Begley come Carceriere e Grande Inquisitore. Creato in forma di concerto alla radio di Torino il primo dicembre 1949 e andato in scena il 20 maggio 1950 al Comunale di Firenze, è la prima opera "impegnata"nell´Italia del dopoguerra. Tre quarti d´ora di musica bellissima e lacerante, colma d´angosce e d´inganni: l´apripista alla stagione delle avanguardie. In quegli anni Dallapiccola è con Goffredo Petrassi la punta più avanzata di una provincia musicale sciroccata da un ventennio di retorica, tagliata fuori dalle grandi spinte innovative del secolo eppure capace di aperture a sorpresa. Come nel 1942, in piena guerra, la prima italiana all´Opera di Roma dell´antimilitarista e "degenerato" Wozzeck.
Dall´orazione di Maria Stuarda all´eterno vagare di Ulisse per i mari, Dallapiccola passa una vita intera a raccontare persone fuori posto per raccontare sé stesso. Nasce nel 1904 a Pisino d´Istria, allora Impero austro-ungarico. Conosce l´esilio a tredici anni durante la Grande Guerra quando il padre, di origini trentine e quindi "politicamente infido", è spedito al confino a Graz con tutta la famiglia. Poi nel 1938 un secondo esilio, tutto interiore e ancora più doloroso: le leggi razziali di Mussolini che colpiscono la moglie Laura Coen Luzzatto. Nel Paese che ha cacciato a schiaffi Toscanini e dove spavaldi direttori-squadristi salgono sul podio in camicia nera posando la rivoltella sul leggìo, sa di non poter far nulla. Leva il grido straziante dei Canti di Prigionia. Si immerge nell´ethos astratto dei Lirici greci tradotti da Quasimodo. E intanto lavora sottotraccia al Prigioniero, che potrà veder la luce solo quando la pace e la libertà gli avranno ridato la parola.
La lunga gestazione è in realtà un modus operandi che lo accompagna tutta la vita. L´ossatura del libretto viene dalla novella La torture par l´espérance, dai Nouveaux contes cruels di Philippe-Auguste conte di Villiers de l´Isle-Adam (1838-1889), scoperti nel 1939 da un bouquiniste di Parigi. Vi riversa passi de La Rose de l´Infante di Victor Hugo, La Légende d´Ulenspiegel di Charles de Coster, frammenti di salmi, persino citazioni dai bollettini di guerra. Per dare forza universale alla denuncia contro la tirannide trasforma un protagonista teoricamente perfetto come quello di Villiers, il rabbino Asher, in un recluso senza nome: il Prigioniero, appunto. Di lui non si sa granché. Langue nelle segrete dell´Oficial di Saragozza. Deve aver simpatizzato con i protestanti fiamminghi in lotta contro Filippo II. Ha subito la tortura. Ha visto per l´ultima volta la madre. rassegnato a morire all´alba, quando la voce amica del secondino lo esorta a sperare: le Fiandre sono in fiamme, i Pezzenti in rivolta hanno ripreso Flessinga. E Roelandt, la campana dell´indipendenza fatta rimuovere da Carlo V, tornerà presto a suonare dalla torre di Gand. Incredibile: la guardia esce ma dimentica di chiudere. Il prigioniero si avventura guardingo per i lugubri corridoi. Trova l´uscita. Sbuca all´aperto accolto dal profumo d´una notte di primavera, quando gli si fa incontro il carceriere che altri non è che il Grande Inquisitore. l´estrema beffa: la tortura attraverso la speranza. Docile e inebetito, il Prigioniero si lascia condurre al rogo.
La musica è una sintesi potente di espansione lirica e atmosfere allucinate, di espressionismo e istinto verista. L´opera italiana con le sue forme chiuse c´è dentro tutta, come l´aria in tre strofe Sull´Oceano, sulla Schelda che è figlia selvaggia de L´alba vindice appar di Cavaradossi. Dall´alto irrompono sinistri inserti corali e spezzoni disperati del primo dei tre Canti di prigionia. Il Prigioniero è una gemma oscura, una parabola pessimista sul male assoluto, sull´assurdo interrogativo cui l´uomo appare condannato: quello della speranza in un riscatto cui la storia del ´900 sembra dare drammaticamente torto.