Bruno Ventavoli, La Stampa 6/12/2007, 6 dicembre 2007
La sala è ancora buia. Nella buca un orchestrale solitario accorda l’arpa. Un facchino russo, in tuta ginnica, smanetta sul cellulare dietro le quinte, in mezzo a cesti di frutti di plastica
La sala è ancora buia. Nella buca un orchestrale solitario accorda l’arpa. Un facchino russo, in tuta ginnica, smanetta sul cellulare dietro le quinte, in mezzo a cesti di frutti di plastica. L’ultima prova del Corsaire, per prendere conoscenza del palco, è iniziata ieri sera intorno alle otto. Le étoiles del Bolshoj, a Torino da qualche giorno per la prima di questa sera al Regio, arrivano in teatro al calare della sera, con i loro capelli biondi raccolti a coda e i piedi sempre un po’ «en dehors», e pacchi di uno shopping fugace nel centro della città. Gli altri, quelli del corpo di ballo, oltre un centinaio, hanno provato per ore nella «Classe» passi che conoscono a memoria. Come fanno sempre, giorno dopo giorno, per essere degni di appartenere a uno dei Teatri più celebri del mondo. Giovanissimi, ragazze e ragazzi, con dedizione e umiltà certosina, si piegano, curvano, snodano, arrampicano verso il cielo, sulle note di un pianoforte. Adorano questa carriera, che li rende comunque privilegiati, anche nella tumultuosa russia postcomunista, e gli dedicano ogni nervo del proprio corpo. Oltre all’anima. Quasi nessuno parla lingue occidentali. Le ragazze sono esili come giunchi. Ogni tanto qualcuna s’allontana dalla sala dove il maestro ordina, per andare a fumare più sigarette. Altri gironzolano per le cambuse, i labirinti, i penetrali del Regio, seguendo rari fogli di carta con scritte a pennarello in cirillico per un orientamento sommario. Centinaia di tutù, lievi come la manna, sono appesi al contrario lungo i corridoi. Sotto lo sguardo severo del coreografo Aleksej Ratmanskij, il primo a salire sul palco, alle otto precise, è Denis Matvienko, l’astro nascente della danza russa. Calzamaglia nera, maglietta grigia, anche lui elargisce qualche messaggino sul cellulare prima di esibirsi, mentre una collega si massaggia i piedi e passa le scarpe sulla pece greca, color giallo sole, per aumentare la presa. Poi appare la bellissima Marija Aleksandrova. Alla mattina era truccata, sollevata da tacchi sensuali, per spiegare che la danza è meravigliosa, «una prigione di fatica, ma colma di fiori». Ora s’è calata nel tutù di Medora, e dovrà far perdere la testa al corsaro Conrad. Gli altoparlanti chiamano i figuranti e i bambini. I primi sono studenti universitari, vestiti da colorati mercanti levantini, o da belle schiave in vendita. I sedici fanciullini sono invece giunti da Milano, perché sono allievi della Scala. Hanno provato per un’oretta insieme ai ballerini russi, hanno cenato alla mensa del teatro nemmeno troppo frugalmente. E ora devono guizzare sul palcoscenico. Non capiscono una parola di russo. E gli assistenti russi non masticano una parola d’italiano. Ma le coreografie, ricostruite con perfezione filologica su quelle ottocentesche di Marius Petipa (grazie a bozzetti, foto, filmati), si compongono perfettamente. Ognuno capisce per miracolo che posizione deve occupare. Basta un gesto pantomimico per dire «Non voglio...», oppure «T’imploro», oppure «Denaro». Una mano piegata, un cenno di sopracciglio. Così come probabilmente avveniva in quelle città osmaniche, dove l’opera è ambientata, e dove mille lingue s’accavallavano in riva al mare. La sera prima della prima s’invola così. Per oltre tre ore, con brevi intervalli. Fin quasi a mezzanotte, quando la prova finisce. Il tempo di una doccia. Poi via verso gli alberghi. Perché questa mattina, alle dieci, si deve tornare sul palco a provare di nuovo. E’ la vita pesante degli esseri più lievi del mondo.