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 2007  dicembre 06 Giovedì calendario

Tomer e Amos sono amici dai tempi del liceo a Newe Sheanan, un quartiere residenziale di Gerusalemme, case basse in pietra bianca e giardini popolati di tartarughe

Tomer e Amos sono amici dai tempi del liceo a Newe Sheanan, un quartiere residenziale di Gerusalemme, case basse in pietra bianca e giardini popolati di tartarughe. Ventinove e trent’anni, sposati entrambi e in attesa del primo figlio, parlano al telefono quasi ogni giorno e si scambiano decine di email ma non si vedono mai. Tomer Zadok vive ancora a Newe Sheanan; Amos Levi, dopo il servizio militare, ha affittato un appartamento al decimo piano di un grattacielo di Tel Aviv. Li dividono meno di cento chilometri d’autostrada, ma quello tra le due capitali d’Israele è un viaggio nel tempo più che nello spazio, storia e futuro, 700 mila abitanti a ridosso delle mura antiche e più di un milione spalmati su un hinterland post-moderno, il peso della memoria contro lo slancio della progettualità. Molto più facile combinare una settimana sulla spiaggia bianca di Phuket, in Thailandia, come hanno fatto l’estate scorsa per festeggiare l’ultima vacanza senza bambini. Il prossimo anno, magari, appuntamento nel Sinai. Gerusalemme e Tel Aviv, la Città Santa e la Profana: la Menorah ebraica, il candelabro a sette braccia, o la luce stroboscopica della discoteca? Luoghi fisici ma anche condizioni mentali. «La stabilità della montagna e l’onda del mare», nota Amnon Dnakner, direttore del quotidiano Maariv. Per conoscere davvero un israeliano bisogna sapere dove abita. Perché, in teoria, nessuno vuol cedere ai palestinesi la patria mitica di Davide e Salomone, nodo di ogni trattativa di pace. Ma viverci è un’altra cosa. Tomer, jeans e kippà in testa, lo zucchetto ebraico, non se ne andrebbe mai: «Gerusalemme è unica, antica ma a dimensione d’uomo. Non c’è la corsa frenetica al consumo, il materialismo, il lavoro per il lavoro. Io, per esempio, sono programmatore alla Nds, una società high tech, ma ignoro i ritmi da Silicon Valley. Che gli impiegati siano o meno ultraortodossi, la famiglia è comunque sacra, non esistono turni notturni, il giorno di riposo è sacro». Una mamma gerosolimitana media ha quattro figli, il doppio di Tel Aviv. L’Eden, dunque? Raffi, felpa Diesel e scarpe made in Italy, ha resistito fino a diciott’anni. Poi ha detto basta all’atmosfera rarefatta del sabato, lo shabbat, le strade quasi senza automobili invase da uomini in pastrano e cappello nero e donne con la parrucca come in uno shtetl ucraino d’inizio 900, alle yeshiva, le scuole religiose ebraiche dove si prega anche la notte, al mito del passato che sbarra la strada al supermercato ventiquattr’ore-su-ventiquattro. Meglio un posto da sistemista alla Mercury e un ritmo, esistenziale e professionale, rigorosamente hard rock: «A Tel Aviv hai tutto, cultura, divertimento, la spiaggia, il parco Hayarkon per andare in bici. La gente è dinamica, ottimista, diversa». Uno dei suoi migliori amici, Ehud, è omosessuale, un viveur doc: prima del matrimonio Raffi saltellava con lui da un locale notturno all’altro, dal Toma all’ultrafashion Mesa, dall’underground Mirpaha al Carpe Diem della cantante Dana International, icona trans. Secondo una leggenda Gerusalemme prega, Tel Aviv si diverte, Haifa lavora. «Per capire Israele ascolta il jazz - consiglia il gerosolimitano Yonatan Kretzmer, sassofonista dei Rats, band rivelazione del 2006 -. Il jazz di Tel Aviv è un prodotto di quello newyorkese, jam session, ritmo, stile raffinato. Gerusalemme è figlia del jazz europeo, pesante, più attento al colore del suono che alla tecnica, orfano di tromba». Divertimento soft contro astrazione, trascendenza, gravità. L’israeliano nuovo, tonico, militare, giustapposto all’avo intellettuale, debole, vittima della Shoah. Nel 2006 oltre 11 mila persone si sono trasferite a Gerusalemme e 17 mila l’hanno abbandonata, almeno un quarto dei nuovi arrivati sono americani e francesi, ebrei ultraortodossi e facoltosi che pagano in contanti e rendono il mercato delle case inaccessibile all’israeliano medio, disposto a indebitarsi per comprare la casa ma non un vessillo identitario. «Questo è un luogo dove non vieni a vivere per caso, devi sentirti coinvolto», ammette Ana Auate, appena immigrata dalla Normandia. Gerusalemme ha un retrogusto esotico, spiega Tomer: «L’hummus, la crema di ceci, e la pita, il pane caldo. Il sapore della città vecchia, così ebraica, così mediorientale». L’occidente è lontano dalle antiche mura tanto quanto abita a Tel Aviv, dove Amos saluta il mattino con colazione «continentale» e vista mare: «Uova fritte, bacon, spremuta di pompelmo. Il massimo è uscire dalla discoteca all’alba e addentare uno ”jahnun”, un panzerotto farcito di pomodoro». Il peso della memoria o l’oblio della vita, fosse pure alimentato a droga, leggera, pesante, sintetica, come nei locali di Basel, anima trendy e un po’ maledetta di Tel Aviv? Quella tra Tomer e Amos, Gerusalemme e Tel Aviv, la letteratura di David Grossman e l’architettura di Mario Botta e Daniel Libeskind, eredi ideali del Bauhaus, è una quérelle politica. A Gerusalemme c’è l’Est, gli arabi, il nemico. A Tel Aviv puoi illuderti d’essere in Belgio e confinare con i cugini francesi. La Città Santa ricorda. Dice Tomer: «Il proprietario del minimarket dove compravo le caramelle da bambino era un eroe di guerra, uno dei tre paracadutisti immortalati della storica foto del ’67 mentre atterrano accanto al muro del pianto». Tel Aviv dimentica, replica Amos: «La vita è rimozione, una forma di memoria selettiva che ti permette di andare avanti». In mezzo, prigionieri della dialettica storica, gli israeliani, più occidentali degli europei, mediorientali come solo gli arabi.