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 2007  dicembre 06 Giovedì calendario

Per ogni paese come per ogni persona esiste un luogo comune che pretende di descriverlo con brevità apodittica

Per ogni paese come per ogni persona esiste un luogo comune che pretende di descriverlo con brevità apodittica. Anche per la Francia ce n’è uno, che non muore: è un paese dove lo Stato è ipertrofico, e i conservatorismi tenaci. un paese che rifiuta le riforme, schiavo d’illusioni, incapace di calcoli razionali. Negli stereotipi c’è sempre una parte di verità e il linguaggio politico francese lo testimonia: parole come competitività o liberalismo sono maneggiate con orrore, quasi scottassero. Ed è vero che le parole hanno un immenso potere: una rosa non avrebbe più il profumo che ha se smettesse di chiamarsi rosa, e si può capire la riluttanza a dar nomi nuovi al mondo abitato. In realtà i francesi sono riluttanti perché il mondo già è mutato attorno a essi, profondamente. da vent’anni che ha cessato di essere la «douce France» che Charles Trenet cantava nel ’43. Mitterrand tentò faustianamente d’immobilizzare la bellezza dell’attimo, e nell’81 propose nei propri manifesti elettorali un villaggio col campanile, una nazione «cullata in tenera spensieratezza» come nei versi di Trenet. Era un ennesimo stereotipo, ingannevole come quello che oggi descrive un popolo cui ripugnano le riforme. In parte ripugnano, certo, ma non perché il tempo si sia fermato. Già da anni la Francia non è più dolce ma affaticata dalla competitività, dal lavoro precario, da uno Stato sociale rattrappito. Il profumo della rosa già s’è perso e per questo forse si esita a dirlo. Sarkozy lo dice, questa è la novità. Ma quando promette rivoluzioni non si sa quale paese abbia in mente: se quello degli stereotipi o quello già provato dalle mutazioni. Naturalmente sono molte le riforme che il paese ancora dovrà fare, e il problema oggi è come completare la mutazione senza frammentare ancor più una società trasformatasi da tempo in arcipelago di individui e gruppi litigiosi. Il nuovo presidente vuol rompere, ma non è chiaro se voglia anche ricucire. Chiaro è invece il suo desiderio di esser presente e decisivo su ciascuno dei fronti: uomo forte che negozia a tu per tu con gli scontenti. Può darsi che il metodo funzioni, ma per il momento sembra rafforzare il sempre meno governabile, meno prevedibile arcipelago. Giuliane Malaurie, direttore del Nouvel Observateur, ritiene che quasi tutte le riforme annunciate s’impongano ma che l’approdo sarà duro: «Andiamo verso un apartheid sociale, con gente che sta dentro i propri fortilizi e gente che, minacciosa, s’assiepa fuori e guata con invidia o risentimento chi riesce a ripararsi».  come se questi fortilizi fossero castelli medievali, cui si accede solo se i proprietari si degnano d’azionare il ponte levatoio: «Ci sono insider e outsider, non una società che tiene tutti assieme». Sarkozy ripete che la delinquenza è delinquenza, che è irresponsabile cercare le ragioni sociali del delinquere. Ma non per questo le ragioni vengono meno e una delle ragioni è la vita di outsider: in un paese che da più di due secoli venera la triade libertà-uguaglianza-fraternità è inevitabile che l’escluso chieda di esser riconosciuto come parte della società. C’è anche questa verità nelle periferie violente. Sarkozy prova di volta in volta a spiegarsi di persona. Ma così facendo è come se dicesse: tra me e voi non c’è nulla. Il nulla è dinamite, mette paura. Quando le società si frantumano succede infatti questo: ogni frammento si concentra sul proprio bottino, vede solo un pezzetto di realtà, non si preoccupa che la società nella sua interezza funzioni e viva. la metafora dello specchio infranto, spesso illustrata da Eugenio Scalfari. Lo specchio italiano è infranto ma anche quello francese - lo si vede negli ultimi tumulti - e perversamente apparenta insider a outsider. Ambedue sembrano giunti alla conclusione che il bene comune sia un’idea superata: per l’insider un fastidio, per l’outsider un inganno. Ambedue reagiscono con bellicose posture. L’indagine sulle origini del male, la medicazione preventiva: sono attività giudicate inani, quando svanisce la società e al suo posto s’insedia l’ircocervo in cui s’accoppiano società naturale e società manageriale. Nel nuovo organismo tutte le caste anelano a un riparo e una sola è offerta in olocausto: la casta dei politici. A che pro una politica che curi le radici? Meglio, quando si è alle prese con le banlieues, strappare il dente piuttosto che curarlo, sguinzagliare poliziotti piuttosto che riconoscere un disastro antico e smettere di considerarlo naturale. In realtà è un disastro in buona parte fabbricato: dall’incuria, dalla scomparsa della polizia di prossimità, dalla rinuncia a scommettere sulle associazioni di quartiere. «I facinorosi in periferia non hanno bisogno di poliziotti che giochino a pallone coi ragazzi», ha detto Sarkozy. Un buon senso spicciolo cui la sinistra risponde con istupidita, muta desolazione. D’altronde i soldi non ci sono: «Lo Stato è in fallimento», dice il premier Fillon. Dunque Sarkozy s’espone, garantisce personalmente che lo Stato c’è: lo Stato è la polizia e sopra la polizia c’è lui, detto l’iper-presidente. Gli esperti in violenza urbana sostengono che proprio questo accentua le tensioni: quest’assenza di intermediari tra outsider e forze d’ordine. Un rapporto della Corte dei Conti denuncia il «fallimento della politica urbana negli ultimi cinque anni», constata che i crediti promessi non arrivano, che lo Stato è «assente, incostante». Il quarto rapporto dell’Osservatorio delle zone urbane sensibili (14 novembre) constata che «ancora non si è riusciti a reintrodurre la Repubblica nei quartieri e i quartieri nella Repubblica», come promesso nella legge del 2003. Ben poco hanno insegnato, se mai hanno insegnato qualcosa, i tumulti del 2005. Lo slogan favorito è tolleranza zero: crimine e disordine sono banditi dal centro-città. Ma l’isola quieta è possibile perché l’illegalità è spostata più in là, non più visibile all’insider. Dentro c’è tolleranza zero, fuori tolleranza 100. Dentro si vive in concorrenza, si apprende il precariato. Fuori s’apposta chi ha talmente interiorizzato i valori di mobilità da considerare l’immobilità una dannazione, un declassamento. Lo stesso Sarkozy prefigura, nella sua politica del corpo, la società che si privatizza sminuzzandosi. Il massimo rappresentante della Repubblica diventa il deputato di una parte: quella che rifiuta l’immobilità, e dunque sprezza chi all’immobilità è condannato. Un’immagine del 6 novembre scorso illustra questo mutato rapporto fra cittadini e Stato, che il Presidente incarna: Sarkozy visita la cittadina portuale di Guilvinec, per incontrare i pescatori in sciopero. Da una finestra qualcuno gli lancia un insulto pesante. Il capo dello Stato si blocca, s’inarca, e dando del tu al provocatore gli risponde per le rime: «Vuoi scender giù, che ti faccio vedere?». Ecco, lo Stato si comporta come un qualsiasi individuo, che a forza di gomiti e grida si arma della legge del più forte. In società siffatte non c’è più rappresentanza sopra le parti, che unifichi i contrasti. Il capo dello Stato si fa parziale, proteiforme: diventa un suscitatore di tensioni, di invidie. L’episodio di Guilvinec impressiona perché è la copia esatta di Zidane che replica all’insulto di Materazzi con un primordiale colpo di testa: con un dente strappato, non medicato. Il sociologo Emmanuel Todd evoca l’Italia: «Ai tempi di Berlusconi gli italiani avevano almeno il Presidente Ciampi: era lui a incarnare la dimensione simbolica dello Stato, della nazione». Sarkozy non ha un Ciampi sopra di sé: il suo contatto diretto con il popolo è rude e non necessariamente segno di forza. Non è neppure autentica forza l’apertura alle sinistre. Guillaume Malaurie mi dice che le sinistre sono non solo afasiche ma stanno dimostrando una triste verità: «Non hanno nulla da dire, quando lo Stato è senza soldi». convinto che esistano ottime persone, tra chi è passato a Sarkozy. Un esempio è Martin Hirsch, ex presidente della comunità Emmaus, alto commissario per la solidarietà: «Dovevo aspettare che vincessero le sinistre per venire in aiuto ai poveri?», ha chiesto dopo la nomina. Resta la natura disgregatrice dell’apertura di Sarkozy: «Il suo è un comportamento predatorio, non edificatore. Deruba personalità, non fa nascere nuove sintesi». La sinistra, da parte sua, non sa riaccendersi e anch’essa non vede che schegge di realtà: «Credeva che i francesi volessero tempo libero al posto di potere d’acquisto e si è sbagliata - continua Malaurie -. Crede che Sarkozy sia Thatcher e non scorge la sua abilità negoziatrice e la sua duplice vocazione liberista e nazional-populista». Sono due vocazioni presenti nel governo, e nessuna ancora prevale. La vocazione liberale è impersonata da consiglieri come Isabelle Mignon e il segretario generale dell’Eliseo Claude Guéant. Ma non meno influente è Henri Guaino, protezionista e anti-europeo. Guaino ama citare il giudizio di Stalin sul Vaticano, quando sente parlare dei vincoli di Bruxelles: «L’Europa? Quante divisioni ha?». Nelle periferie già si vede, questa vita francese così simile alla società naturale di Hobbes: «vita solitaria, povera, incattivita, brutale e breve». Sembra di stare a Gaza: stessi colori bluastri nei giorni delle sommosse, di fiamme e di sangue. Stessi volti su cui è stampato l’odio per uno Stato non più ritenuto legittimo. I facinorosi son pochi ma sono i soli che «parlano»: coi fucili. Sparano sulla polizia, quindi sullo Stato. Incendiano di preferenza le biblioteche. La biblioteca Louis-Jouvet è stata distrutta nella notte fra il 26 e il 27 novembre, a Villiers-le-Bel, e aveva questo di particolare: l’iscrizione annua costava 2 euro, l’accesso era gratuito ai giovani fino ai 18 anni. Bruciare biblioteche è un’automutilazione, scrive il reporter Tonino Serafini su Libération. C’è chi in banlieue si suicida così. Non sono terroristi e neppure stranieri. I kamikaze sono in casa, ma è come se stessero fuori perché la casa comune non c’è più. La Questione Sociale, data per morta, può rinascere anche così. (2 - fine)