Il Sole 24 Ore 02/12/2007, pag.29 John Updike, 2 dicembre 2007
Scrittori messi a nudo. Il Sole 24 Ore 2 dicembre 2007. La prima domanda che sorge quando si parla di biografie letterarie è senz’altro: «A cosa servono?»
Scrittori messi a nudo. Il Sole 24 Ore 2 dicembre 2007. La prima domanda che sorge quando si parla di biografie letterarie è senz’altro: «A cosa servono?». Quando un autore ha dedicato tutta la vita a esprimersi e, se è un poeta o un romanziere, ha attinto al fondo delle sensazioni e degli eventi cruciali che hanno segnato la sua vita, che cosa può aggiungere di significativo il biografo? Gran parte degli scrittori conducono una vita tranquilla o, anche quando non è così, ci interessano per le parole che scrivono durante quelli che devono essere stati momenti tranquilli. Indipendentemente da ciò che ha affascinato i suoi contemporanei, Byron oggi ci interessa innanzitutto per il Don Giovanni e per tutte quelle poesie che cantano ancora e poi per le sue raffinate e vigorose lettere. La sua avvenenza e la toccante zoppìa, il matrimonio finito in scandalo e la conseguente fuga dall’Inghilterra, la pittoresca dissolutezza europea, la generosa partecipazione alla causa per l’indipendenza della Grecia e infine la tragica morte prematura a Missolungi nel 1824, tutto questo sensazionale materiale sarebbe sepolto nei più polverosi archivi della storia se non fosse per la levatura letteraria di Byron che lo distingue da protagonisti altrettanto tormentati e dinamici di quella turbolenta epoca Romantica. Egli vive attraverso le sue parole ed è da queste che promana l’impeto per le biografie che si succedono di anno in anno. ... Non sono un grande appassionato di biografie letterarie. A dire il vero ho le mie riserve sul genere. Eppure, guardando indietro, mi rendo conto non solo di averne recensite parecchie, ma anche di averne lette molte di mia iniziativa, per soddisfare la mia curiosità. Anche se la biografia letteraria entra di rado nella classifica dei bestseller, la produzione editoriale del genere è prodigiosa, come lo è la lunghezza di alcune opere. Lo stimato biografo inglese Michael Holroyd ha superato la sua biografia in due volumi di Lytton Strachey con un’opera in tre tomi sulla vita di George Bernard Shaw. La biografia di Henry James curata da Leon Edel, frutto di ventun anni di lavoro, consta di ben cinque libri di cui l’ultimo è il più voluminoso. Li tengo tutti nel granaio, perché ricevendoli in omaggio al mio indirizzo, li considero troppo preziosi e potenzialmente utili per regalarli alla fiera di beneficenza parrocchiale, ma non abbastanza pregiati da trovar loro posto sugli straripanti scaffali della mia casa già sommersa dai libri. ... La domanda iniziale: «A cosa servono?» si rivolge ai fruitori più che ai produttori. Alcune biografie letterarie nascono come tesi di dottorato, altre come ricostruzioni personali di un amico o di un conoscente dell’autore. In genere chi scrive pensa di aver qualcosa da dire e aspira ai meriti e alle soddisfazioni di aver pubblicato un libro. Noi leggiamo, o quelli fra noi che lo fanno, biografie letterarie per svariate ragioni, tra le quali la prima e forse la più valida è il desiderio di prolungare e ampliare la nostra intimità con l’autore, per condividere ancora, da un’angolazione diversa, le gioie che la sua opera ci ha fatto provare, la presenza di una voce o di una mente che abbiamo imparato ad amare. Un esempio di questo prolungamento è la biografia in due volumi di George D. Painter dedicata a Marcel Proust che lessi da giovane, poco dopo essere riemerso dalla lettura di tutta la Recherche, ebbro e ancora assetato. L’opera di Painter, unica nel suo tentativo di trattare la vita di Proust con definitiva esaustività, ci permette di entrare nella grande casa del romanzo dalla porta di servizio per così dire, un approccio che rende solido, concreto e definito quello che nel romanzo era grande, vago, inconseguentemente orchestrato e magistralmente caricato della sensibilità poetica proustiana. Painter deve ricorrere alla ricerca e al l’indagine per ricostruire quello che Proust ha edificato a partire dai suoi ricordi, ma è palesemente lo stesso edificio, con alcune preziose aggiunte. Il biografo colma grandi omissioni, come nel caso del fratello minore dello scrittore Robert, ed è schietto e analitico laddove Proust era evasivo, ad esempio sulla questione dell’orientamento sessuale dello scrittore. ... In questi casi dunque la biografia può diventare un mezzo per rivivere il romanzo, con una vicinanza e una gioia nel vedere riapparire sotto forma reale i dettagli immaginati, ai quali solo questo particolare scrittore e il suo immenso capolavoro autobiografico potevano dare vita. Gli appassionati di Proust si avvicineranno inevitabilmente a Painter perché in un certo senso è un po’ la stessa cosa, rispecchiata nuovamente nella realtà. Forse sono solo gli scrittori a interessarsi ai dettagli del processo creativo e al modo in cui gli altri padroneggiano l’ingegnoso disordine della composizione. Ma quello che in genere io ricordo delle biografie letterarie sono i curiosi dettagli metodologici: Ivy Compton-Burnett scriveva seduta a un’estremità del divano e metteva i fogli che si accumulavano sotto il cuscino; Edith Wharton scriveva a letto e lanciava a terra le pagine che la sua segretaria si premurava di raccogliere e trascrivere; Joyce Cary lavorava su una scena qualsiasi che gli veniva in mente del romanzo ed era sicuro che alla fine tutto si sarebbe tenuto insieme. Hemingway scriveva sempre con matite appena temperate seduto a uno scrittoio alto, Nabokov su schede d’archivio; John Keats si vestiva di tutto punto prima di sedersi a comporre una poesia; Henry James, dopo un crampo dello scrittore, aveva cominciato a dettare a una dattilografa e il suo stile tardo nacque nell’accurata trascrizione della sua verbosità orale, della sua aggettivazione e dei suoi colloquialismi. ... Spesso leggiamo le biografie letterarie con spirito diagnostico, come se avessimo a che fare con un reparto di uomini e donne malati. Le teorie psicoanalitiche della compensazione e l’illuminante saggio di Edmund Wilson intitolato La ferita e l’arco hanno allertato i biografi sulla relazione che intercorre fra talento creativo e menomazioni umane. Un biografo di Kafka ad esempio non può ignorare l’insonnia, l’innaturale soggezione del padre, l’ambivalenza nei confronti del suo essere ebreo e l’incapacità, fino a quando non fu fatalmente indebolito dalla tubercolosi, di stabilire una relazione con una donna, insomma tutta la paralisi psicologica drammatizzata nelle sue cupe commedie sul disagio moderno. E i giganti americani di metà Ottocento quali Melville e Hawthorne, legati da un’inquieta amicizia, mettono qualsiasi biografo alla prova con i misteri delle loro vite affettive. La fragilità mentale di Melville, la sua vena omoerotica, la sua inadeguatezza come marito e come padre contrastano con lo humour e la forza delle sue migliori creazioni e con la tenacia attraverso la quale affrontò una vita carica di delusioni. E Hawthorne che trascorse gli anni della giovinezza nella stregata Salem, scrivendo in una soffitta, uscendo solo al crepuscolo e accompagnandosi perlopiù a una madre incredibilmente schiva e a una sorella dalla forte personalità che per lui rappresentava, come è stato ipotizzato, una moglie virtuale; questa stravaganza come si rapporta alla stravaganza della sua opera, permeandola di un’ombrosa intensità e di un evasivo ricorso alla bizzarria e al gioco della fantasia? I linguaggi della psicoanalisi e dell’analisi letteraria si fanno sempre più intrecciati; ma non dobbiamo dimenticare che l’attenzione che rivolgiamo a questi invalidi dipende dalla verità, dalla poesia e dallo svago che si possono trovare nelle loro creazioni. Una ferita c’è stata, ma anche un forte arco e un bersaglio è stato colpito. John Updike