Sergio Romano, Corriere della Sera 6/12/2007, 6 dicembre 2007
Sul Corriere lei ha affermato che per il Paese è indispensabile una riforma costituzionale che sottragga il presidente del Consiglio al continuo ricatto dei suoi ministri e il governo al continuo ricatto del Parlamento
Sul Corriere lei ha affermato che per il Paese è indispensabile una riforma costituzionale che sottragga il presidente del Consiglio al continuo ricatto dei suoi ministri e il governo al continuo ricatto del Parlamento. Argomentazione largamente condivisibile. Ora le chiedo: ammesso che qualcuno si faccia carico di questa importante proposta, quale percentuale di parlamentari sarà disposta a sostenerla sapendo di dover rinunciare in avvenire «ad una fiera di scambi e del baratto (...) e di esercitare un’influenza molto superiore al proprio peso», come ha spiegato? Umberto Gaburro Guidizzolo (Mn) Caro Gaburro, I l dibattito sulla necessità di una grande riforma costituzionale cominciò all’inizio degli anni Ottanta. Bettino Craxi fu molto colpito da ciò che stava accadendo in Francia. Dopo avere lungamente definito la repubblica gollista «un colpo di Stato permanente», un socialista, François Mitterrand, aveva vinto le elezioni e si era servito dei poteri presidenziali per imprimere una svolta social-democratica alla politica francese. Fu chiaro, da quel momento, che il sistema semipresidenziale della V Repubblica non era necessariamente conservatore e offriva alla sinistra democratica possibilità che la democrazia parlamentare non le aveva garantito. Craxi provò a smuovere le acque della politica italiana e propose l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Ma era difficile immaginare che una tale innovazione potesse venire adottata senza una riforma costituzionale con cui venissero chiaramente definiti i nuovi poteri del capo dello Stato. Più interessante fu la istituzione di una Commissione bicamerale presieduta dal liberale Aldo Bozzi. Tenne la sua prima riunione il 30 novembre del 1983 e produsse un rapporto in cui era previsto, tra l’altro, il rafforzamento dei poteri del presidente del Consiglio. Il capo dello Stato avrebbe designato il Premier e questi avrebbe esposto alle Camere riunite, entro dieci giorni, il programma del governo e la composizione del Consiglio di gabinetto. La fiducia del Parlamento sarebbe stata conferita alla sua persona e i ministri sarebbero stati nominati successivamente. Per il voto di sfiducia era previsto che la mozione venisse discussa e votata dalle Camere in seduta congiunta. Le proposte rimasero nel cassetto e il dibattito, grazie alle iniziative di Mario Segni, si concentrò negli anni seguenti sul problema della riforma della legge elettorale. Da allora abbiamo avuto due leggi elettorali (nel 1993 e nel 2006) e due nuove Commissioni bicamerali presiedute da Ciriaco De Mita, Nilde Iotti e Massimo D’Alema. Ma nessuna delle due commissioni riuscì a concludere i suoi lavori con un rapporto. La riforma giunse infine con il governo Berlusconi, ma fu vittima del clima che si era instaurato fra i due blocchi e venne sommariamente liquidata con un referendum durante il quale neppure il centro-destra, paradossalmente, s’impegnò a dimostrare i vantaggi che il Paese ne avrebbe avuto. Questa sequenza storica, caro Gaburro, conferma il suo scetticismo e dimostra che le grandi riforme costituzionali si fanno generalmente quando la vecchia classe dirigente è fortemente screditata da una sconfitta, dagli scandali, dall’evidente e clamoroso insuccesso delle sue politiche. Una tale occasione si presentò soprattutto durante gli anni Novanta e venne tragicamente perduta. Oggi alcuni leader politici sperano che qualche più modesto risultato possa essere raggiunto con specifiche riforme nell’ambito di un disegno meno ambizioso. Ma temo che il Parlamento non abbia né la voglia né i numeri per raggiungere questo più limitato obiettivo. Eppure dovrebbe essere evidente ormai che il sistema costituzionale italiano impedisce al Paese di affrontare i suoi maggiori problemi in tempi ragionevoli, recuperare il tempo perduto, stare al passo con l’Europa, godere del prestigio internazionale a cui avrebbe diritto. Piace ai «beati possidentes», cioè a coloro che possono, grazie alle sue vecchie norme, esercitare un potere incommensurabilmente superiore ai loro meriti e alla loro effettiva importanza. Sono i veri conservatori, anche quando appartengono alla sinistra, e tengono in ostaggio una intera nazione.