Giangiacomo Schiavi, Corriere della Sera 6/12/2007, 6 dicembre 2007
DAL NOSTRO INVIATO
PARIGI – qui che tutto è cominciato. Rue des Archives 34. Il Beaubourg si vede appena, è come un’astronave a colori. Dal laboratorio sulla strada Renzo Piano guarda però un altro futuro: Milano, Italia. Scheletri di una vecchia fabbrica appesi alle pareti, fotografie di Berengo Gardin che catturano i fantasmi di un altro mondo. C’è un lungo capannone ricostruito con il vetro e l’acciaio che si intreccia con il verde selvaggio del lento abbandono: quando alla Falck di Sesto San Giovanni c’era la classe operaia si chiamava laminatoio, e vengono in mente le facce in bianco e nero di un secolo fa, il tonfo delle presse, il fumo un po’ acre e la sirena che annuncia la fine del turno.
Si farà qui il museo d’arte contemporanea che manca a Milano, il nuovo Beaubourg che la politica ha rimandato negli anni per miopia e sterili conflitti. Ma la rivoluzione dell’architetto che all’inizio degli anni Settanta fece atterrare il futuro a Parigi è un’altra, e cancella i confini di una città rimasta chiusa nel suo cerchio di gesso. «Un giorno ti accorgi che basta fare un passo e sei fuori – dice Piano – e di colpo hai cancellato l’aggettivo periferico».
Milano la periferia la cancella con il progetto che domani verrà presentato al presidente Giorgio Napolitano in visita al cantiere di Sesto, dove in quei 150 ettari di archeologia industriale lasciati liberi dagli altiforni e dalle acciaierie Piano ha reinventato una città, «la città delle idee», dove l’arte di questo secondo Beaubourg è integrata con la scienza e con la tecnologia, dove il verde penetra nelle case alte ottanta metri e la botanica e la geotermia diventano impresa, dove il Nobel Carlo Rubbia sperimenta la connessione con veicoli a trazione elettrica o idrogeno con un nome da saga di Tolkien: gli Elfi. E dove l’economista Guido Rossi teorizza insieme a Piano l’equità sociale, l’idea che la ricchezza che viene creata deve essere generosamente ridistribuita. C’è anche un nuovo linguaggio dietro questo progetto, e un sogno coltivato da un altro collaboratore di Piano, il regista Ermanno Olmi: è l’idea del risarcimento urbano, di ridare con la sostenibilità qualcosa che alla città era stato tolto. Il verde espropriato dagli anni Cinquanta, per esempio. «Bisogna restituirlo ai cittadini», è la sua sintesi.
un ritorno che segna tante svolte quello di Piano nella città dove si è laureato e ha cominciato a disegnare nello studio di Albini, perché parte da un simbolo del passato come la fabbrica «per resuscitare quell’ansia del sociale» che Milano ha interpretato al meglio negli anni del miracolo italiano, quando si chiamava capitale morale. La fabbrica come etica, innovazione, curiosità artigiana, aderenza alla concretezza, capacità di esplorazione, portatrice di cultura. Ci sono le case, ma quello che esplode davvero è il verde: e Piano prima di accettare l’offerta del costruttore Zunino ha chiesto che non sia priviegio di pochi, ma spazio pubblico, distribuito a tutti i cittadini perché è così che si crea qualità urbana. «Le abitazioni, il verde, il lavoro, la cultura, tutto deve creare connessione». La città, ogni città dice Piano, «deve respirare, ha bisogno dei colori», e gli architetti e gli urbanisti devono far scoprire a chi ci vive la dimensione del bello, che non deve essere esclusivo. Cultura, fabbrica, ambiente: l’integrazione di certi valori diventa possibile dopo le tante polemiche, le accuse del ministro Rutelli e l’anatema di Celentano sui progetti di Milano. «Passeggiando per giorni nella vecchia area Falk – racconta Piano – mi sono reso conto che il progetto era già fatto, che la natura si era impossessata dei relitti industriali e bastava soffiarci dentro, riportare alla luce l’anima dispersa della memoria, legare quel mondo di valori al nostro fragile presente».
Il museo d’arte contemporanea arriva dopo, è l’ultima magia che il sindaco di Sesto Oldrini, il presidente della Provincia Penati e l’assessore alla Cultura Benelli gli chiedono di disegnare: avrà una superficie espositiva di 10 mila metri quadrati, sarà pronto alla fine del 2008. Aprirà un conflitto con Milano, o forse no: dipende dalla politica. Per il Museo c’era già una destinazione all’Arengario, ma il progetto arranca per l’esiguità degli spazi. Si parla di costruirne uno nuovo nell’area dell’ex Fiera: ma i tempi saranno lunghi. «Io non cerco conflitti, l’assessore Sgarbi aveva già detto che un Museo d’arte contemporanea necessita di grandi spazi e nella mia fabbrica ci sono». Piano non lo dice, ma sono già al lavoro gli scout della Provincia per trovare i grandi collezionisti, creare collegamenti con i maggiori musei stranieri, definire la prima mostra. L’arte può abbattere i muri residui tra Milano e il suo hinterland, rilanciare quella città policentrica che oggi resta chiusa da antistoriche barriere. Un insieme difficile da gestire, ma rappresenta una sfida. «Milano è una città complessa – spiega Piano – e la complessità è il suo valore: il futuro è nel mix, nella fusione delle diversità che creano ricchezza. Non si vince con la monocultura, ma con l’ibrido, il meticciato». Qui la cultura è nella storia, in un passato di grande orgoglio e vitalità. «Dobbiamo reagire alla fragilità del mondo con qualche idea forte, dice Piano, con l’ansia del sociale cerchiamo di ridare un’anima alle nostre città».
Parigi-Milano
Progettato da Renzo Piano
(foto) e Richard Rogers, quando viene inaugurato, nel 1977, il Centro Pompidou (a sinistra), noto come Beaubourg, stupisce per le sue linee innovative e solleva un vespaio di critiche. Oggi è uno dei luoghi più visitati di Parigi. A destra il progetto del nuovo museo dell’arte moderna di Milano nell’area ex Falck di Sesto San Giovanni