Carlo Bertelli, Corriere della Sera 6/12/2007, 6 dicembre 2007
All’ingresso della moschea che da un’alta scalinata domina il centro di Prizren, in Kosovo, è esposta la copia del chirografo con cui il conquistatore dei Costantinopoli e dei Balcani, Maometto II, ordinava da Skopje di non torcere un capello ai francescani
All’ingresso della moschea che da un’alta scalinata domina il centro di Prizren, in Kosovo, è esposta la copia del chirografo con cui il conquistatore dei Costantinopoli e dei Balcani, Maometto II, ordinava da Skopje di non torcere un capello ai francescani. Un commento in inglese, vuole dimostrare che l’impero ottomano fu tollerante assai prima che gli stati europei scoprissero la virtù della tolleranza. La moschea fu però eretta nel Seicento da un pascià nativo di Prizren, Sinan, con i marmi del demolito monastero ortodosso dei Santi Arcangeli, risalente al 1348, le cui rovine si trovano nei pressi della città. Del resto, il riuso dei materiali era nel costume da tempo. Quante chiese di Roma raccolgono le colonne tolte ai templi pagani? L’imam che ha affisso il proclama imperiale nella sua moschea lo sa bene. Ma è uomo colto, sconvolto dal predominio mafioso che vede intorno a sé e dall’imperversare di una barbarie senza limiti. L’avviso era da qualche anno affisso in moschea quando, nel marzo del 2004, migliaia di albanesi kosovari armati perpetrarono una giornata di stragi. A Prizren, la chiesa di San Spasa e della Madonna di Ljevisa (Bogorodica Ljeviska) furono incendiate. La perdita degli affreschi della seconda chiesa non è stata avvertita nel mondo per la sua gravità. Per la cultura europea e asiatica che va dall’Adriatico al Mar Nero, ovvero per tutto il mondo ortodosso, è una ferita profonda. Per la cultura occidentale, è stato perduto un monumento importante dell’ultima stagione bizantina che ebbe nell’antico regno serbo un autunno ricco di frutti. Nessuno ha dedicato un’elegia alla perdita del malinconico ritratto del re fondatore Milutin, traboccante di fervore religioso al di là dei girelli regali che quasi lo incastonano. Nessuno ha pianto per la Madonna allattante, del Duecento, così vicina alla pittura veneziana contemporanea. La chiesa di Levisa era tutta avvolta di filo spinato. A sorvegliarla erano i vigili dell’Uck, la formazione militare in cui furono accolti i reduci albanesi della guerra etnica. L’episcopio era invece sorvegliato dai tedeschi, sotto l’egida della Nato. Quando fu appiccato il fuoco alla Levisa, i tedeschi erano 1 km distanti. Altri monasteri sono sorvegliati, e molto bene, dagli italiani. Il monastero di Decani, il patriarcato di Pec, non corrono rischi, grazie alla presenza italiana. Gracani, uno dei più splendidi monumenti del Trecento serbo, è dentro un’enclave serba, simile a un grande campo di concentramento, nel quale è difficile entrare. I monumenti ortodossi serbi sono però decine e decine, sparsi in modo capillare su di un territorio che in antico si chiamò Metochia, che in serbo croato significa donazione, dono dei re alla Chiesa. impossibile prevedere che a lungo questi luoghi alti della cultura europea possano essere custoditi con i carri armati. Che siano negati a tutti, anche a un giovane albanese che studi la storia dell’arte all’università di Pristina. Mentre gli anni trascorrono, lo stato dei monumenti rimane incerto. Sugli affreschi del patriarcato di Pec sono ancora visibili le strisce di carta incollate per trattenere le fenditure negli anni ’80. Si tratta di monumenti che dipendono dal servizio dei beni culturali serbo, ma i tecnici serbi che vi si recassero rischierebbero la vita. Le elezioni dell’ottobre scorso non hanno dissipato le preoccupazioni. Le hanno forse accresciute. Tanto più perché non sembra che nelle trattative internazionali si sia tenuto conto, al di là degli equilibri interetnici, di una realtà di cultura e d’arte che solo una reale forza internazionale, posta al di sopra delle parti contendenti, potrà preservare a quello che, con una certa retorica , è chiamato «patrimonio dell’umanità ». E che di fatto lo è, finché vivrà. Si tratterà, allora, di imporre zone di protezione speciali, della cui immunità le forze politiche presenti sul territorio siano pienamente responsabili. A suo tempo il trattato di Losanna garantì questo stato al patriarcato di Costantinopoli. Si tratterà ora – penso – di studiare quel modello, tenendo conto anche delle raccomandazioni già contenute nei documenti guida per le forze occupanti risalenti all’anno scorso. Dal nostro paese, che si è assunto da sempre molte responsabilità nei confronti dei Balcani, e che anzi inviò i tecnici dell’Istituto Centgare del Restauro per i compiti più urgenti, il mondo della cultura e dell’arte attende un’iniziativa politica di grande responsabilità.