Corriere della Sera 05/12/2007, pag.45 Sergio Romano, 5 dicembre 2007
IL CONTINENTE AFRICANO FRA PETROLIO E SAPONE
Corriere della Sera 5 dicembre 2007. L’Africa è periodicamente scossa da crisi profonde. Il Darfour è uno dei casi più drammatici: tra le vittime si contano persino i militari dell’Unione africana in missione di pace. La Somalia è un buco nero che non lascia intravedere possibili soluzioni. Su Etiopia ed Eritrea soffiano venti di guerra, mentre in Congo si ammassano migliaia di rifugiati sfuggiti ai massacri in Uganda e ovunque intere popolazioni sono costrette a spostarsi per sottrarsi a lotte tribali e stermini. Ora poi si è aperta la corsa all’accaparramento delle ingenti materie prime ancora poco sfruttate, specialmente da parte dei nuovi protagonisti dello sviluppo economico asiatico. Il deprecabile comportamento della Cina con l’appoggio indiretto alla pulizia etnica in Darfour («sangue per petrolio» come denunziato da Hitchens sul Corriere)
introduce anche dall’esterno interferenze e condizionamenti che complicano ulteriormente la situazione, per non parlare della crescente espansione islamica fomentata dai Paesi musulmani. Eppure l’Africa ha ricevuto e continua a ricevere dalle Nazioni Unite, dall’Unione europea, dai Paesi più industrializzati tra cui l’Italia, dalle tante organizzazioni umanitarie molti più aiuti rispetto a tanti altri Paesi del Terzo mondo che registrano invece costanti progressi. Quali possono essere le ragioni per le quali l’Africa resta ferma quando non regredisce?
Francesco Nigro, Roma
Caro Nigro,
Le ragioni del quadro descritto nella sua lettera sono quelle ormai note da parecchio tempo. La decolonizzazione fu un processo troppo rapido, dettato dalle esigenze politiche delle vecchie potenze coloniali piuttosto che dalla maturità delle loro colonie. I nuovi Stati si rivelarono immediatamente creazioni artificiali, spesso etnicamente eterogenee, prive di una qualsiasi ossatura politica e amministrativa. Le classi dirigenti si comportarono spesso come bande di predoni, decise a trattare le risorse del Paese alla stregua di ricchezze private. La Guerra fredda ebbe il tragico effetto di far piovere sul continente i capitali con cui ciascuno dei due blocchi cercò di comperare la fedeltà dei governi locali. E la fine della Guerra fredda ebbe l’effetto, non meno tragico, di rendere evidente la precarietà dei regimi africani.
La comunità internazionale fu complessivamente piuttosto generosa. Ma non poté evitare che il denaro stanziato dai singoli Paesi e gli ambiziosi programmi dell’Onu venissero pervertiti e distorti dal pessimo uso che ne fecero generalmente le oligarchie locali. La storia del continente, dall’inizio degli anni Sessanta, è una lunga sequenza di colpi di Stato, guerre civili e conflitti che hanno in alcuni casi distrutto le istituzioni e lasciato le popolazioni alla mercé di pericolosi avventurieri.
il caso della Somalia, della Liberia, della Sierra Leone. E là dove non è stato distrutto dalla guerra civile, lo Stato si è dimostrato incapace di restaurare la pace e l’ordine. il caso del Ruanda, del Congo, del Sudan. Anche le aziende occidentali, in molti casi, hanno gravi responsabilità. Ma non è realistico attendersi che l’imprenditore, quando rischia i propri denari, si comporti molto meglio dei suoi interlocutori locali.
Oggi vi sono alcuni segnali positivi. Come ha scritto Francesco Battistini sul Corriere
del 15 novembre, il più recente rapporto della Banca mondiale segnala che «i 44 Paesi africani seguono lo sviluppo del resto del mondo» e che «molte economie sembrano avere voltato pagina, tanto da intaccare l’alto tasso di povertà e attrarre investimenti». La crescita media del continente negli ultimi dieci anni è stata del 5,4%, ma raggiunge, generalmente grazie al petrolio, il 19,8% in Mauritania, il 17,6% in Angola, il 9% in Ciad, il 7,9% in Mozambico. Queste percentuali sono dovute in buona parte alla riapparizione nel continente della Cina, affamata di materie prime. Ho scritto «riapparizione» perché vi fu una fase storica durante la quale la Cina cercava di trasmettere all’Africa i valori e lo stile del comunismo asiatico.
Se lo sviluppo sarà costante e verrà accompagnato da una maggiore stabilità politica, l’Africa potrebbe divenire, come l’Asia, un grande mercato. Per darle un’idea, caro Nigro, del livello di certi consumi africani e di ciò che potrebbero diventare in futuro, le segnalo che una grande azienda olandese sta cercando di vendere nel continente un particolare tipo di sapone antibatterico. Leggo nel Financial Times
del 15 novembre che Unilever, per raggiungere i suoi potenziali consumatori e spiegare i vantaggi dell’igiene personale, organizza in Uganda piccoli spettacoli durante i quali un attore chiede dal palcoscenico quante persone si lavino le mani prima della colazione e quante usino il sapone. Da una folla di circa 150 persone si sono levate, dopo la prima domanda, 30 mani; dopo la seconda soltanto due.
Sergio Romano