Javier Cercas, La Stampa 4/12/2007, 4 dicembre 2007
Un aforisma di Fernando Aramburu: «Sovente, uscendo di casa, m’impongo risolutamente di prendermi sul serio
Un aforisma di Fernando Aramburu: «Sovente, uscendo di casa, m’impongo risolutamente di prendermi sul serio. Non possiamo sperare che gli altri ci rispettino se non diamo loro il buon esempio». A scrivere una cosa del genere può essere unicamente qualcuno che si burla spesso di se stesso. E da qui, l’ammonimento a prendersi sul serio. L’autoironia è, naturalmente, una delle elementari forme di onestà, perché tutto, o quasi, può essere preso in giro, ma ci si conquista il diritto a burlarsi di tutto solo se, prima, si è stati capaci di burlarsi di se stessi. Questo non vuol dire che chi faccia dell’autoironia non corra rischi: li corre tutti. Cioran si meravigliava che i recensori dei suoi libri spesso usassero contro di lui le stesse frecciate che egli aveva lanciato contro se stesso: «Niente è più disonesto e più stupido che servirsi dell’ironia di un altro per farlo a pezzi». quel che di solito succede a quanti fanno autoironia «in contumacia». naturale che, nei momenti difficili, stufi di fare la pappa ai propri nemici, siano tentati di cedere loro, in esclusiva, il compito di prenderli in giro e decidano di prendersi sul serio e incomincino a parlare in modo petulante e a camminare per strada come se avessero ingoiato un manico di scopa. Forse è questo ciò che succede, in un momento di avvilimento e di debolezza, al personaggio che parla nell’aforisma di Aramburu, un autoironico che sente d’aver sopravvalutato le proprie forze. Tutto sta va indicare che si tratta solo d’un brutto momento, il momento d’uscire di casa: fortunatamente, perché quello è il momento del successo degli stupidi e dei disonesti. La letteratura più difficile A quanto ne so l’aforisma è, con la poesia, il genere letterario più difficile che ci sia perché si muove sul filo del ridicolo. Per questo è strano che la nostra letteratura, così ricca di poeti e che non ha mai disdegnato d’apparire ridicola, non sia anche ricca di aforisti. Gran parte di costoro ha, spesso, sbandierato i meriti dell’aforisma; pochi hanno avuto il coraggio di denunciarne i difetti. Campione nel dare brutte notizie, Cioran è stato uno di questi («L’aforisma? Un fuoco senza fiamma. Si capisce perché nessuno voglia scaldarsi con esso»); ma fu lo stesso Cioran a scrivere: «Le opere muoiono, certe piccole frasi, dal momento che non hanno vissuto, non possono morire». Orwell contro Auden Come sa bene chi pratica l’autoironia - e proprio per questo motivo la pratica - è impossibile essere onesto senza soluzione di continuità. Quest’anno è stata pubblicata un’antologia di poesie e di saggi di W. H. Auden, uno dei più onesti scrittori del XX secolo. Come altri suo compatrioti, nel 1937, Auden venne in Spagna per appoggiare la Repubblica e, quello stesso anno, scrisse una poesia intitolata Spagna. George Orwell, anch’egli venuto ad appoggiare la Repubblica - lui, però, con le armi in pugno - e che volle essere onesto senza soluzione di continuità, e, quasi, ci riuscì - accusò Auden di mancanza di onestà per aver scritto in quella poesia un verso che parla della «cosciente accettazione della colpa di fronte a un assassinio necessario»: Orwell, che aveva visto morire e uccidere, vede in questa riga «la totale irresponsabilità dell’intellighenzia» e «l’impronta dell’amoralismo» che «è possibile solo se sei quel tipo di persona che sta sempre altrove quanto si preme il grilletto». Auden obiettò che la critica di Orwell era ingiusta, però finì per correggere il verso (cambiò «l’assassinio necessario» con «un assassinio compiuto») e, cancellando questa poesia dalla propria opera omnia, in conclusione dette ragione a Orwell. Ce l’aveva, ragione? Probabilmente: è vero che se uno accetta d’andare in guerra è perché, per quanto essa sia ripugnante ed egli si assuma o no la colpa di ciò che ne deriva, considera che la morte degli altri sia necessaria. Ciò che, però, scoprì il finissimo olfatto morale di Orwell è che una cosa è la morte e un’altra l’assassinio, e che in una guerra la prima è, a volte, indispensabile, ma il secondo no. Questa leggerissima sfumatura mostra il confine tra onestà e disonestà. Frasi lapidarie (ma d’autore) Auden, che non ha praticato troppo l’autoironia, ha praticato spesso l’aforisma o la frase lapidaria. L’onestà di Auden: «Il passato non bisogna prenderlo sul serio, è neppure il futuro: solo il momento presente; e bisogna farlo non per il suo contenuto emozionale o estetico, ma per il suo determinante carattere storico». La dignità di Auden: «La felicità non è un diritto; è un dovere. Al punto che se siamo infelici, siamo nel peccato (e viceversa)». Tradurre o tradire? Come Valéry, Auden pensa che la poesia - se non la letteratura nel suo insieme - sia intraducibile. Avendo letto questa frase quando ero troppo giovane (proprio nel periodo in cui Stephen Dedalus mi parlava d’uno scrittore «così cattivo che legge persino le traduzioni») per tentare d’essere onesto mi sono sforzato di imparare molte lingue. Ho fatto una cosa ridicola: non ne ho imparata nessuna, con il risultato che ho trascorso il resto della vita a leggere libri scritti in lingue che non comprendo; libri che, di conseguenza, più che leggere, intuisco o invento. Qualche tempo fa mi sono, però, consolato grazie a un aneddoto su Roman Jakobson. Raccontano che la prima volta in cui il grande linguista russo andò in visita ad Harvard, sia stato ricevuto dal presidente dell’università. «Signor Jakobson - gli disse il presidente - ho saputo che lei parla 14 lingue». « vero - rispose Jakobson - però le parlo tutte in russo». Jakobson, non ci sono dubbi, era un tipo onesto. O quasi.