Fabio Martini, La Stampa 4/12/2007, 4 dicembre 2007
Oramai sulle scogliere di Sorrento era spuntata l’alba, ma dentro l’albergone ”vista mare” i neon erano restati accesi tutta la notte
Oramai sulle scogliere di Sorrento era spuntata l’alba, ma dentro l’albergone ”vista mare” i neon erano restati accesi tutta la notte. I camerati palpitavano: quel testa a testa, in corso da 13 ore, tra «il giovanotto» e il vecchio Pino non si capiva proprio come sarebbe finito. La presidenza del congresso missino scandiva l’intermittenza «Fini, Rauti, Fini, Fini, Rauti, Rauti, Fini...» e attorno i tifosi urlavano «Olè!». Alle 8,45 del 13 dicembre 1987 la conta finisce, il trentacinquenne Gianfranco Fini è proclamato segretario del Movimento sociale italiano. Il vecchio Giorgio Almirante, oramai malato - morirà cinque mesi più tardi - ma ancora in grado di incantare, si avvicina al delfino: «Sì, Fini è il successore che volevo, ho la fortuna di trasmettere in mani giovani e sicure il patrimonio che ho tentato di custodire in questi anni». Fini, che ad Almirante dà del lei, contraccambia con un sorriso. Era durato 21 anni il comando di Giorgio Almirante e quel giorno a Sorrento nessuno avrebbe potuto immaginare che quel ragazzo bolognese alto e magro avrebbe tenuto in mano il partito per un periodo altrettanto lungo. Certo, il ”ventennio” finiano è fatto di una storia democratica profondamente diversa da quella degli altri capi della destra italiana, ma è pur vero che un destino comune unisce queste leadership: il comando si prende da giovani (Giorgio Almirante diventò segretario dell’Msi a 33 anni, Benito Mussolini ne aveva 39 quando fu nominato capo del governo) e il potere, una volta conquistato, dura assai. Leadership carismatiche che finiscono per lasciare il segno e anche i venti anni di Fini, (seppure con la cesura di un anno e mezzo della segreteria di Pino Rauti) hanno profondamente cambiato la destra italiana. Certo, chi non lo ha ama ha sempre rimproverato a Fini una partenza da ”raccomandato”, sospinto da Almirante e dalla moglie, la vulcanica Donna Assunta Stramandinoli che il marito aveva affettuosamente ribattezzato «zio Adolfo». Ma la storia è un po’ più complessa. Prima ancora che Almirante posasse la sua simpatia su Fini, era stato Pinuccio Tatarella, assieme a due grandi amici di Gianfranco (Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa) a preparare il forte cambio generazionale. In questo d’accordo con Almirante. Come ricorda donna Assunta: «L’accusa a mio marito di essere fascista era ridicola. Ma voleva Fini segretario, perché a lui non potessero rivolgerla». Certo, erano anni nei quali nell’Msi si viveva di nostalgia e lo stesso Fini, nel discorso di investitura, sostenne che il fascismo era andato al potere non grazie alle alleanze, ma perché seppe interpretare un Paese che non si riconosceva nell’Italietta dei suoi governanti. Ma la scommessa sul cambio generazionale dà presto i suoi frutti: nel 1993 il missino Fini si decide a sfidare Francesco Rutelli per la conquista del Campidoglio, un anno dopo consuma lo strappo col fascismo nello storico congresso di Fiuggi. Due decisioni alle quali il leader arriva ”accompagnato” da intuizioni altrui, anche se poi è lui a prendersi la responsabilità delle decisioni. Dopo gli articoli di uno studioso non missino come Domenico Fisichella sul ”Tempo” in cui si vagheggiava un’«Alleanza nazionale»; dopo i primi smottamenti di Tangentopoli; dopo il referendum elettorale (osteggiato dall’Msi) che cancellava il sistema proporzionale, nel luglio del 1993 in casa di Andrea Ronchi, allora mezzobusto in una tv locale romana, Fini apre le sue ”consultazioni”. Racconta Francesco D’Onofrio, allora nella Dc: «Ricordo che in quelle chiacchierate serali, Fini pur di fare uscire il suo partito fuori dall’orbita della nostalgia, era pronto a non presentare un candidato dell’Msi se si fosse presentato Francesco Cossiga nella corsa per il Campidoglio. Ma alla fine per candidarsi in prima persona fu un po’ trascinato per i capelli». Ma, come altre volte negli anni successivi, una volta deciso, Fini mostra i suoi numeri. Nei match televisivi risulta efficacissimo, Enzo Biagi arriva a dire che il leader missino è «bravo, diretto, chiaro, conosce il mestiere». Tanto che nella sfida con Rutelli, si materializza un miracolo di cui oggi si fatica a comprendere la novità: il segretario dell’Msi è ad un passo dalla vittoria, un evento che avrebbe fatto il giro del mondo. Una voce mai chiarita ha sempre raccontato che allora Fini, pago della improvvisa botta di popolarità, negli ultimi giorni di campagna elettorale abbia ”frenato” pur di evitare il peso di diventare sindaco di Roma. Racconta Francesco Storace, allora creativo portavoce di Fini: «Francamente una fesseria. Ricordo che il penultimo giorno Gianfranco, incitato ovunque andasse, mi disse: ”Per evitare di fare il sindaco, domani mi toccherà indossare una camicia nera!”. Scherzava». Da allora, vittorie, sconfitte, una popolarità di Fini nei sondaggi che è inossidabile negli anni. Ma nel consuntivo del ”ventennio” c’è un paradosso: accanto a Gianfranco si ritrovano i ”ragazzi di Sorrento”. In 20 anni il gruppo dirigente di An è restato tutto missino. I co-fondatori di An attratti dalla novità (Domenico Fisichella, Publio Fiori, Gustavo Selva, Gaetano Rebecchini) se ne sono andati e se è vero che negli addii possono aver giocato le ambizioni frustrate, nuovi arrivi non ci sono stati: «Erano grandi le potenzialità di trasformare An in un partito aperto - racconta Gustavo Selva - ma quando il partito è tornato al governo nel 2001, ha prevalso l’autoreferenzialità e si è richiuso tutto». La seconda caratteristica dei primi venti anni di Fini è proprio la durata della leadership, mai oscurata dall’ombra di uno sfidante. Sono gli altri a non avere coraggio o più semplicemente Fini è il migliore della sua generazione? Dice Maurizio Gasparri, l’amico della giovinezza col quale il leader non ha più il rapporto di un tempo: «Vogliamo dire la verità? Venti anni fa abbiamo fatto la scelta giusta e non credo che con altri le cose sarebbero andate meglio. Certo, è intervenuta anche una certa accettazione reciproca dei ruoli. Un po’ come in famiglia: il papà e la mamma uno non se li sceglie, ci si litiga ma poi ci si riappacifica. E anche il tempo gioca. L’altro giorno ho detto a Gianfranco: ci siamo conosciuti 34 anni fa, il grosso della nostra vita politica l’abbiamo fatto».