Carlo Grande, La Stampa 4/12/2007, 4 dicembre 2007
CARLO GRANDE
Nemmeno le simulazioni al computer l’avevano previsto, soprattutto non avevano pronosticato che avvenisse in così breve tempo: negli ultimi decenni la fascia tropicale terrestre ha cominciato ad espandersi verso Nord e verso Sud, a causa dei cambiamenti climatici, il che avrà nel futuro un impatto devastante per molte e vaste regioni del globo.
Lo dicono, in una ricerca pubblicata su «Nature Geoscience», alcuni scienziati americani guidati da Dian Seidel, del Noaa (National Oceanic and Atmospheric Administration) coadiuvato da alcuni colleghi del Centro Nazionale di Ricerche atmosferiche di Boulder, in Colorado e da altri studiosi indipendenti: le zone aride subtropicali verranno spinte verso i Poli e nel loro spostamento potrebbero inglobare le regioni mediterranee, quelle del sud-est dell’America del Nord, il Messico, l’Australia meridionale, il Sud Africa e parte del Sud America. Anche mezza Italia rischia di venire coinvolta nel fenomeno di un clima tropicale.
Seidel e i suoi colleghi hanno riesaminato gli studi fatti sull’ampiezza della fascia tropicale utilizzando come base di parametri indipendenti, che distinguono le zone tropicali da quelle subtropicali, come i cambiamenti delle temperature atmosferiche, l’osservazione del regime dei venti e le concentrazioni dell’ozono nell’aria. Le conclusioni sono state drammatiche: i tropici hanno avuto, effettivamente, un’espansione di circa 2.5 gradi nel senso della latitudine negli ultimi 25 anni, allargamento che secondo i modelli climatici non sarebbe dovuto avvenire prima della fine del XXI secolo.
Inutile dire che l’allarme, lanciato in contemporanea con l’apertura del vertice di Bali, getta una luce sinistra sul futuro di milioni di persone: le loro nazioni dovranno fronteggiare cambiamenti radicali degli ecosistemi, mai verificatisi prima in quelle aree. La carenza di precipitazioni atmosferiche produrrà gravissime conseguenze per l’approvvigionamento d’acqua e per l’agricoltura locale, i fenomeni climatici estremi (desertificazione del suolo, per esempio, ma anche violente tempeste tropicali) metteranno a rischio la vita di migliaia di persone in aree così densamente popolate.
E’ uno scenario estremo, ancora peggiore di quello delineato dall’Ipcc (l’Intergovernmental Panel on Climate Change), che prevedeva l’aumento delle temperature a due gradi in più, per quanto riguarda il riscaldamento globale, nel 2100. Già si erano riscontrate, negli ultimi anni, variazioni significative delle specie coltivate nelle zone a clima temperato: si sapeva che specie vegetali (ma anche animali) tipiche delle zone tropicali si sono «spostate» e hanno raggiunto qualche volta anche le nostre latitudini, cominciando a modificare gli ecosistemi di sempre. Non tutte le specie sono ovviamente le benvenute: «Si diffonderanno germi patogeni tropicali e gli ”insetti vettori” che li trasportano e contribuiscono al contagio», spiega il professor Barry Brook, dell’Università di Adelaide, ricordando ad esempio che l’Australia è una delle nazioni che nel futuro non troppo lontano saranno più colpite da questi nuovi fenomeni.
Insomma, leggere il nuovo rapporto è come lanciare lo sguardo in un futuro apocalittico, che vedrà addirittura mutare le aree intorno a due zone cruciali del pianeta, il Tropico del Cancro e quello (a Sud) del Capricorno. La Terra verrà (e viene già ora, dicono gli scienziati) trasformata drasticamente dal riscaldamento globale, provocato soprattutto dalle attività degli esseri umani. Non è più tempo di tentennamenti, il momento di intervenire è arrivato. Per salvare il pianeta dal futuro collasso climatico bisogna stabilizzare le emissioni mondiali di gas serra entro il 2020 e dimezzarle entro il 2050. Occorre, quindi, compiere il prima possibile una vera e propria rivoluzione energetica per sviluppare nel più breve tempo possibile le fonti rinnovabili di energia e annullare il contributo alla nostra attività delle fonti fossili, primo tra tutti il carbone, il combustibile che produce le più alte emissioni di gas serra.
LA STAMPA 4/12/2007
GIOVANNA FAVRO
L’Italia dovrebbe essere l’Arabia Saudita dell’energia rinnovabile. Nessun Paese europeo ha le vostre risorse: il sole, la forza del mare, il vento, le montagne per le centrali idroelettriche. Eppure molti altri Stati, dalla Germania ai paesi scandinavi, sono più avanti». E’ il j’accuse dell’economista Jeremy Rifkin, presidente della «Foundation of Economics on Trends» di Washington e autentico guru in materia di impatto dei cambiamenti tecnologici sull’economia, la società e l’ambiente. Secondo lo studioso, «l’Italia è stata leader nella prima e nella seconda rivoluzione industriale e dev’esserlo pure nella terza, in cui si gioca la sopravvivenza della specie umana. Destra e sinistra italiane devono accordarsi: il vostro governo dovrebbe essere sensibile a questi temi, perché Prodi è stato il primo leader del mondo, da presidente dell’Ue, ad avviare un costoso progetto di ricerca sull’idrogeno».
Rifkin l’ha detto ieri mattina a Torino, alla cerimonia d’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università, di cui è stato ospite d’onore. Ha parlato a braccio, trascinante e apocalittico, e ha disegnato il nostro futuro così: «L’umanità è passata attraverso più rivoluzioni tecnologiche, sempre legate all’irrompere di nuovi mezzi di comunicazione. La prima rivoluzione industriale lega la stampa, il carbone e il vapore, la seconda il telefono, il telegrafo e il motore a scoppio. Ora siamo alla terza: una nuova straordinaria era, con internet e i computer da un lato, e l’abbandono del petrolio, del carbone e delle tecnologie del secolo scorso dall’altro».
Il futuro è il passaggio dall’«energia elitaria» a quella «distribuita»: non più la concentrazione delle risorse in poche zone geologiche ricche di gas, carbone o petrolio, ma sole, mare e vento, disponibili in ogni luogo del mondo. Significa anche «dare potere al popolo. Il sole non brilla sempre, il vento non soffia ogni giorno, a volte c’è bassa marea. Ma se riusciremo a stoccare l’energia con le tecnologie a idrogeno, miliardi di edifici e di oggetti produrranno elettricità ed energia ad emissioni zero». Immagina uno scenario in cui «tutti creeranno la propria energia e invieranno a una rete intelligente le eccedenze, anche dalla propria automobile. Cambieranno le nostre vite e si annulleranno le distanze tra paesi e ricchi e poveri, oggi senza potere perché non hanno energia».
Sarà la riscossa dei paesi in via di sviluppo, ma il tema è cruciale anche per gli europei, «perché il riscaldamento del pianeta è al limite: presto l’Artico sarà un lago su cui andare in barca a vela, e gli uragani continueranno ad aumentare». Processi iniziati da anni, «ma che subiscono un’inattesa accelerazione». E poi, «fra trent’anni il petrolio finirà, e prima di allora i prezzi continueranno a crescere». Il nucleare non è una buona alternativa: «Le 400 centrali del pianeta producono solo il 5% dell’energia, e in più stanno diventando obsolete: per ammodernarle servirebbero due miliardi di euro ciascuna, e per avere effetti positivi sul clima occorrerebbe costruirne due nuove al mese per 60 anni».
L’unica strada sono le energie rinnovabili: «E’ una scommessa che deve unire tutti i popoli del mondo, e in cui non possiamo commettere errori, perché non avremmo il tempo di porre rimedio. Le università hanno un ruolo cruciale, perché tutte le discipline e le conoscenze del mondo vanno poste a profitto della salvezza della razza umana. Non so se possiamo ancora farcela, ma dobbiamo comportarci come se fossimo ancora in tempo».
LA STAMPA 4/12/2007
GIULIETTO CHIESA
Si va formando, lentamente ma con netta progressione, l’idea che la Cina sia il nuovo nemico. Non l’unico, ma nuovo. Sin dalle prime battute della Conferenza di Bali si è visto che siamo nei guai, intendo dire tutti. L’Europa è andata a Bali con una proposta: contenere l’aumento climatico entro i 2° (rispetto all’inizio delle rivoluzione industriale). Ma il consenso mondiale attorno a questa proposta non c’è, e sarà molto difficile costruirlo. Ma noi sappiamo anche che la barriera del «+ 2°» non ci salverà da immani catastrofi nel tempo assai breve di una quindicina-ventina d’anni. Figurarsi se si andasse oltre, ai 3°, 4°, 5° che si prevedono in caso non si rallenti drasticamente, fin da subito, l’emissione di anidride carbonica e di altri gas serra nell’atmosfera.
Chi è il colpevole per questo stato di cose? Tutti sembrano guardare oggi alla Cina e all’India, di cui si dice che, presto, diverranno i principali emettitori di CO2. Perché? Perché si sviluppano a tassi altissimi di crescita del loro Pil: la Cina quest’anno oltre l’11% e l’India oltre il 7%.
Vera l’una e l’altra cosa, ma niente affatto vero che i principali responsabili del riscaldamento climatico siano e saranno loro. Yu Qingtai, il capo negoziatore cinese a Bali, che ho incontrato a Pechino alla vigilia dell’inizio del nuovo negoziato, ha ricordato che, anche se la Cina continuerà a svilupparsi a questo tasso di crescita, nei prossimi vent’anni contribuirà al riscaldamento, con le sue emissioni pro capite di CO2, il 30% in meno dei Paesi industrializzati.
Ed è un fatto innegabile che i circa 40 Paesi industrializzati che hanno firmato Kyoto (i più saggi della combriccola, tra cui tutti gli europei) hanno mancato tutti gli obiettivi che si erano dati e hanno continuato ad aumentare le loro emissioni di CO2. E ancora più innegabile è che gli Stati Uniti non hanno neppure ratificato Kyoto e annunciano di essere contrari a ogni accordo che li vincoli in qualche forma a una riduzione controllata delle emissioni.
L’ambasciatore Yu Qingtai, con il sorriso sulle labbra, fa puntigliosamente il conto delle debolezze della Cina, e lo ripeterà a Bali quando verrà il suo turno: siamo il Paese più popoloso della Terra, siamo in grande sviluppo ma siamo ancora un Paese sottosviluppato, abbiamo un mix energetico in cui prevale il carbone (alto emettitore di CO2), disponiamo di poche tecnologie avanzate. Siamo impegnati a migliorare la situazione e a cooperare per un accordo internazionale. Ma ciascuno guardi prima di tutto in casa propria. I principali «riscaldatori» siete voi, Paesi industrialmente avanzati, e lo sarete ancora nel prossimo e medio futuro. E aggiunge, questa volta, senza sorriso: «E se siamo in questa situazione è essenzialmente perché negli ultimi 200 anni siete stati voi a combinare tutto questo pasticcio. Noi siamo appena arrivati sulla scena».
Difficile negare l’evidenza, come è difficile negare che l’Occidente deve alla Cina molto più di quello che appare a prima vista. Mao Rubai, presidente della Commissione per la tutela dell’ambiente del Congresso nazionale del Popolo, aggiunge una considerazione: «Quando la Cina decise di ridurre l’aumento della popolazione imponendo un figlio per famiglia, chiese ai suoi cittadini un sacrificio enorme, tremendo. Il risultato è che oggi noi siamo trecento milioni di persone meno di quelli che saremmo stati. In termini di emissioni di CO2 questo significa semplicemente 1.300 milioni di tonnellate in meno ogni anno».
Ma, al di là dei meriti e demeriti, storici e attuali, della diverse componenti della famiglia umana, s’impone una svolta. Anche perché il riscaldamento climatico non aspetta le lente decisioni umane. Se non si invertirà il corso dello sviluppo attuale, cominciando a ridurre le emissioni del 6% annuo, raggiungendo il picco di emissioni entro il 2018-2020, sarà impossibile ottenere la soglia di salvezza entro la metà del secolo. Il problema è che non stiamo facendo quasi niente. Non è la Cina il nostro nemico: il nostro nemico siamo noi.