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 2007  dicembre 04 Martedì calendario

ARTICOLI SUGLI STUDENTI ITALIANI, I PEGGIORI D’EUROPA SECONDO UN’INDAGINE OCSE


LA REPUBBLICA 4/12/2007
MARCO REGGIO
ROMA - Sono gli aridi numeri di una tragedia annunciata. Oggi verranno diffusi i risultati dell´indagine Ocse Pisa che accertano le competenze dei quindicenni scolarizzati nei 30 Paesi dell´Ocse con l´aggiunta di altri 27 Paesi partner. Questa volta tocca alle capacità di apprendimento nelle Scienze, e l´Italia crolla dal ventisettesimo al trentaseiesimo posto. E come se non bastasse: l´aggiornamento delle competenze in matematica, al centro dell´indagine 2003, ci dice che manteniamo il triste risultato di bassa classifica. Ma le note dolenti riguardano l´area della lettura: dal 2000 al 2006 la percentuale di studenti che sono scesi sotto il livello 1, quello più basso, è cresciuto di ben sei punti.
Ma torniamo alla valutazione delle conoscenze scientifiche dei nostri studenti quindicenni. Il campione scelto è di 21.773 studenti in 806 scuole, divise per macroaree geografiche: Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud, Sud ed Isole. Ma anche per indirizzi di studio: licei, istituti tecnici, istituti professionali e formazione professionale. Il campione italiano è rappresentativo di 11 Regioni, più le province autonome di Bolzano e Trento. Il quadro che ne esce non è confortante: il punteggio medio degli studenti italiani nella scala complessiva delle Scienze è di 475 punti, una distanza siderale dalla prima in classifica, la Finlandia con 563 punti. Ma battuti anche dall´Estonia, Slovenia, Taiwan e Hong Kong. Complessivamente un quarto degli studenti italiani è sotto il livello 2, il più alto è il 6, il livello individuato dai ricercatori come il minimo che permette ai quindicenni di confrontarsi con casi elementari che prevedono analisi scientifiche o tecnologiche. Un vero disastro. Esistono, però, diverse Italie. Intanto dipende dagli indirizzi scolastici. Gli studenti dei licei raggiungono risultati di gran lunga migliori di quelli conseguiti dai loro coetanei degli istituti tecnici, mentre esiste un abisso con i giovani delle scuole professionali. Conta anche l´area geografica dove si studia: nelle scuole del Nord-Est i livelli di apprendimento superano la media Ocse, e di poco questo accade in quelle del Nord Ovest. La situazione peggiora al Centro per crollare nelle Regioni del Sud e nelle Isole. «Mi fa tornare in mente l´Italia degli anni ”50 - commenta il professor Roberto Petronzio, presidente dell´Istituto nazionale di Fisica Nucleare - la scuola dovrebbe mettere in grado tutti gli studenti di avere una base di autonomia e di ragionamento. Poi ognuno deciderà quale strada intraprendere. Purtroppo il nostro sistema vuole manufatti già pronti, rincorre il "campo" che sembra tirare di più. Stiamo perdendo la cultura del saper ragionare. E questi sono i risultati».
Passiamo ora agli strumenti usati dai ricercatori internazionali per valutare le conoscenze dei 400 mila studenti-campione, un campione che rappresenta quasi 20 milioni di quindicenni scolarizzati. Tre gli obiettivi. Il primo: valutare la competenza che permette agli studenti di riconoscere quali questioni possono essere affrontate in termini scientifici. Il secondo: dare una spiegazione scientifica a fenomeni specifici. Terzo obiettivo: valutare la capacità di interpretare dati raccolti scientificamente a sostegno di una tesi scientifica. Il prossimo appuntamento è per il 2009, quando l´area d´indagine principale sarà di nuovo la lettura.

LA STAMPA 4/12/2007
RAFFAELLO MASCI
RAFFAELLO MASCI
ROMA
Dopo averci comunicato in precedenti ricerche che siamo un popolo di ignoranti che non conoscono neppure l’italiano (2000), e che siamo digiuni di matematica (2003), l’indagine Pisa 2006 che sarà presentata stamattina a Parigi, sancirà «anche» il fallimento nelle scienze. Il dato non ci coglie di sorpresa, perché era nell’aria, ma ci fa un certo effetto, anche perché nella classifica dei 57 paesi su cui l’indagine si è stesa, veniamo dopo l’Estonia, la Slovacchia, Macao, Taipei, la Croazia, la Polonia.
Il campione
L’indagine Pisa (Programme for International Student Assessment) si svolge su un campione di quindicenni in tutti e 30 i Paesi dell’Ocse più un certo numero di altri paesi, e verifica con i test le loro conoscenze in: lingua nazionale, matematica e scienze. Ciascuna delle tre ricerche finora realizzate, ha poi fatto un «focus» specifico su una di queste materie. Quella che verrà illustrata oggi sarà sulle scienze e ci vede al 36° posto. In quella sull’italiano eravamo terzultimi in classifica sugli, allora, 28 paesi Ocse, in matematica eravamo penultimi. Meglio di noi stanno tutti i Paesi del G7 e gran parte di quelli comunitari, eccetto Grecia, Portogallo, Bulgaria e Romania. Per quanto riguarda la misurazione, alla media Ocse viene dato il punteggio di 500, rispetto al quale si vede chi sta a cavallo e galleggia (Francia, Svezia e Danimarca, per esempio), chi sta sotto (noi ma anche altri 31 Paesi tra cui gli Usa) e chi svetta (venti Paesi in tutto, tra cui la Finlandia che è la prima). Possibile che i quindicenni di mezzo mondo sviluppato sappiano fisica, chimica e biologia così meglio dei nostri? In realtà la ricerca Pisa non misura il «profitto», in senso stretto, ma la facoltà di «problem solving»: di tradurre cioè le conoscenze in soluzioni di fronte a dei problemi. Quando lo studente italiano si trova di fronte alla prova di lingua per esempio, spiega un tecnico Pisa, riesce a rispondere a domande «chiuse» ma non a quelle «aperte». Se legge la favola di Cappuccetto Rosso - per dire - e si trova di fronte alla domanda se il protagonista avesse una nonna, un nonno o solo una zia, sa dove mettere la crocetta giusta. Ma se gli si chiede di scrivere da chi fosse costituita la famiglia di Cappucetto Rosso lascia lo spazio vuoto. C’è, in sostanza, una incapacità di tradurre le cose apprese in risposte concrete a domande poste dall’esperienza.
La soluzione
Si può fare qualche cosa per sbloccare questa situazione? «In questi anni c’è chi si è dato da fare e chi no - dice Giuseppe Ferrari, direttore della Zanichelli, una delle maggiori case editrici scolastiche - In Germania la pubblicazione di Pisa 2003 è stata vissuta come un problema nazionale e ha determinato una mobilitazione da parte della scuola e delle famiglie. Tant’è che la Germania è risalita al 13° posto dal 18° che aveva: l’Italia ha perso 9 posizioni». In quanto editore, Zanichelli ha anche varato un progetto che prevede, all’interno dei libri di testo, delle prove di valutazione analoghe a quelle di Pisa, e una serie di esercizi di problem solving che vanno verso la direzione auspicata dall’Ocse. Ma la questione principale è quella di avvicinare i ragazzi alle scienze associando l’esperienza e il laboratorio allo studio. «Noi - spiega Nicola Vittorio, presidente dei presidi delle facoltà scientifiche - ci siamo posti questo problema già dal 2003 e abbiamo varato il progetto per le lauree scientifiche, che comincia proprio da un lavoro di orientamento sui ragazzi di 15 anni. Che cosa li frena ad avvicinarsi alle scienze? Secondo noi l’”accademia”: l’apprendimento solo come una teoria libresca. La lezione frontale è importante ma non può bastare. Lo studio delle scienze va fatto in laboratorio e cominciando dall’esperienza. I ragazzi devono essere attori e non recipienti. Non è possibile che a 8 anni chiedano il piccolo chimico a Babbo Natale e a 18 preghino perché chimica non esca alla maturità». Questa svolta, conferma Vittorio, non può che passare attraverso gli insegnanti e la loro formazione. «La scuola non può diventare il posto in cui la passione per le scienze viene soffocata».
Il ministero un gesto l’ha fatto: 34 milioni per tenere aperte le scuole al pomeriggio, di cui 15 solo per i laboratori. Poi c’è un comitato presieduto dall’ex ministro Luigi Berlinguer per la promozione delle discipline scientifiche. Ora si tratta di mettere mano alla formazione che, finora, è stata solo un adempimento burocratico. Fioroni lo ha detto, con una frase ad effetto, in Commissione: «Credo che dobbiamo rivedere per gli insegnanti il sistema dei master e dei corsi di aggiornamento. Perché in questo campo si è verificata una situazione simile a quella che Lutero condannava a proposito delle indulgenze: è certo il lucro di chi vende le indulgenze ma non è affatto certa l’acquisizione del posto in Paradiso».

LA STAMPA 4/12/2007
LUIGI LA SPINA
Bisogna smetterla di guardare al passato col tipico lamento nostalgico: la scuola d’élite, per fortuna, è scomparsa; quindi è comprensibile che la cultura media dei nostri liceali sia inferiore a quella di una volta. Bisogna evitare generalizzazioni ingiuste: nel nostro Paese ci sono professori eccellenti, aule dove si studia seriamente e, perciò, i nostri migliori studenti sono più bravi dei loro coetanei stranieri.
Bisogna guardare al futuro: il confronto, non solo con le nazioni emergenti del mondo, ma con l’Europa, rivela che l’incapacità della scuola italiana di preparare i nostri giovani alla competizione internazionale è drammatica, crescente e, se continua così, irreversibile.
I risultati Ocse Pisa, la ricerca forse più attendibile e indicativa sulle competenze applicative degli studenti in tutto il mondo, saranno ufficialmente comunicati oggi. Ma le anticipazioni sono largamente sufficienti per concludere che la vera emergenza italiana è quella della formazione dei nostri ragazzi e che il declino italiano sarà inarrestabile se la consapevolezza delle conseguenze di questa emergenza non saranno chiare a tutti. La classifica sulle conoscenze dei quindicenni italiani è sconfortante: su 57 Paesi Ocse e non Ocse siamo scesi al 36° posto, battuti largamente anche dalla Spagna e superando, tra i Paesi europei, ancora di poco, Portogallo e Grecia. Ma, se la tendenza continuerà inalterata, la prossima ricerca triennale Pisa ci vedrà sconfitti anche da loro.
In questi ultimi anni scuola e università italiane sono state subissate da una serie continua di riforme. Un terremoto di provvedimenti che ogni ministro dell’Istruzione si è sentito in dovere di applicare alle già deboli strutture scolastiche del nostro Paese. Le cure, forse perché sbagliate, forse perché contraddittorie, forse per mille altri motivi, non hanno avuto l’effetto sperato. Come tutti i professori universitari constatano ogni giorno, i giovani che entrano negli atenei sono sempre più ignoranti. La sintassi (e magari la grammatica) è un oggetto misterioso nei loro scritti, le regole elementari dell’algebra e della geometria sono sconosciute. Qualche anno fa, il preside di Lettere, a Torino, propose un esame di italiano, con un tema, un riassunto e una prova di grammatica e sintassi, come condizione indispensabile per ottenere la laurea. Pochi giorni fa, il rettore dell’ateneo torinese ha annunciato l’istituzione di corsi estivi di recupero per affrontare l’ingresso all’università. Il suo collega, al Politecnico, si è detto disposto a finanziare lezioni suppletive nella scuola secondaria, pur di assicurare un livello minimo accettabile di conoscenze scientifiche a chi volesse iscriversi ai corsi universitari.
A questo punto, è chiaro che il problema non è più quello di proporre altre riforme. Né quello di continuare solamente a sollecitare maggiori finanziamenti per scuola e università. Ci vuole un capovolgimento di mentalità fra tutti coloro che sono coinvolti in questa drammatica situazione. Occorre che i genitori protestino vivacemente non perché i loro figli studino troppo, ma perché studino poco e male. Che i presidi, con le opportune garanzie per evitare azioni discriminatorie e ingiuste, abbiano la possibilità di impedire che nelle loro scuole alcuni professori, palesemente ignoranti e ignavi, continuino a compromettere il futuro dei ragazzi a loro affidati. Che i risultati della maturità siano valutati con attenzione per un giudizio sulla capacità degli insegnanti di mettere in condizione i loro allievi di affrontare la prosecuzione degli studi.
C’è, infine, un problema politico grave. Se un parlamentare non ottiene il denaro per costruire un ponte nel suo paese, minaccia di non approvare la Finanziaria e di far cadere il governo. Perché ha paura della reazione dei suoi compaesani, capaci, alla prossima legislatura, di non votarlo più. Se, per conseguenza, non ci sono più soldi per una scuola migliore, non otterrà la riconoscenza dei nipoti di quei compaesani. Secondo voi, che cosa sceglierà?

LA STAMPA 4/12/2007
Maria Teresa Siniscalco, curatrice della precedente ricerca Pisa e coautrice di un libro sulle valutazioni internazionali della scuola italiana. Perché, secondo lei, veniamo dopo tante nazioni anche meno sviluppate della nostra?
«Chiariamo subito una cosa: la ricerca Pisa non misura quanto gli studenti sappiano nel senso tradizionale del termine. Ci sono altre ricerche dell’associazione per la valutazione del profitto (Iea) che fanno questo a partire dagli anni Sessanta. Pisa misura invece il ”sapere attivo” dei ragazzi, la capacità cioè di utilizzare e applicare le conoscenze a problemi simili a quelli che si incontrano nella vita reale».
In una parola?
«Non misura le nozioni, ma la capacità di utilizzarle».
Ma perché dovremmo dare una competenza di un genere così applicativo?
«Perché l’Ocse ha valutato l’evoluzione del lavoro e della società fino al 2020 e ha rilevato come serva un sapere duttile, capace di aggiornarsi in continuazione e di dare risposte ad esigenze che sono sempre in evoluzione. Un esempio: la riparazione di una Opel nel 1933 era illustrata da un manuale di circa 200 pagine. Oggi quelle pagine sono 13.800. Per fare le stesse cose bisogna, quindi, sapersi muovere in un mare di informazioni che crescono esponenzialmente».
Perché gli altri sono più bravi di noi?
«Sfatiamo subito alcuni miti. Non serve più spesa: gli Usa hanno incrementato il budget per l’istruzione dall’80 a oggi di oltre il 70% e la loro performance scolastica non è migliorata. L’Inghilterra ha fatto grandi riforme strutturali tra l’88 e il ”96, ma è solo dopo che ha cominciato a lavorare sulla qualità dell’insegnamento che la situazione è migliorata. Così come non serve, entro certi limiti, abbassare il rapporto docenti-allievi (già in Italia bassissimo). Non voglio dire che tutte queste cose in determinate circostanze non servano, ma non sono la risposta al problema che ci stiamo ponendo».
Che serve, allora?
«Soprattutto investire sulla qualità degli insegnanti. Come? Per esempio: attirando alla scuola i laureati migliori attraverso una forte selezione all’ingresso delle scuole di specializzazione. Dare, poi, un’ottima formazione iniziale affiancata a un serrato tirocinio. Continuare con la formazione permanente, mirata e verificata. Valorizzare lo scambio tra docenti di una stessa scuola come esperienza di diffusione delle pratiche migliori e di lavoro di team. Impegnarsi molto sul recupero dello status di docente. Dare stipendi iniziali che siano concorrenziali, sennò i migliori lasceranno sempre la scuola».
Funzionerà tutto questo?
«In Finlandia - il paese primo nella classifica Pisa e che tale era anche nelle precedenti ricerche - ha funzionato benissimo. Ci sono fondati motivi per ritenere che funzionerà anche da noi. E in ogni caso l’investimento sulle persone è sempre quello che dà maggiori ricadute».