Vari 4/12/2007, 4 dicembre 2007
ARTICOLI SULLA CONDANNA A DUE ANNI DI DONATELLA DINI (4/12/2007)
CORRIERE DELLA SERA
FLAVIO HAVER
ROMA – Bancarotta fraudolenta mediante falso in bilancio. l’accusa che è costata la condanna a due anni e quattro mesi di carcere a Donatella Pasquali Zingone, moglie dell’ex premier Lamberto Dini, nel processo sul fallimento da 40 miliardi di lire della società «Sidema », avvenuto il 13 marzo 2002: la vicenda non coinvolge il Gruppo Zeta, basato in Costarica. La stessa pena è stata inflitta a Italo Mari, componente del Cda e amministratore delegato dell’azienda dal 26 gennaio al 1º luglio 1999. Per effetto dell’indulto, è stata condonata la pena ad entrambi gli imputati, per i quali però è stato anche disposto il divieto di accesso a cariche societarie per dieci anni (la pena è stata sospesa). La Zingone e Mari sono stati invece assolti da un’altra contestazione, la bancarotta preferenziale, «perché il fatto non sussiste». Un terzo imputato, Enrico Pozzo, amministratore della «Sidema » dal 26 gennaio 2000 al fallimento, aveva già patteggiato due anni.
«Apprendo con rammarico che non è stata completamente riconosciuta la mia totale estraneità alla vicenda e che l’assoluzione è stata solo parziale. Sono certa e fiduciosa che la magistratura nel grado superiore di giudizio, anche in relazione all’unico capo di imputazione rimasto, riconoscerà la mia assoluta innocenza», ha sottolineato Donatella Pasquali Zingone. «Senza entrare in valutazioni tecniche per le quali sono già intervenuti i miei avvocati, che provvederanno a impugnare la sentenza, posso dire – ha aggiunto la moglie di Dini – che continuerò con coraggio e convinzione a difendere la mia onorabilità ». Secondo gli avvocati Cataldo D’Andria e Fabio Viglione, «la sentenza ha certamente ridimensionato la tesi sostenuta dall’accusa. Pur prescindendo dalla convinta estraneità della signora Zingone dall’attività di amministrazione della "Sidema", confortati da recenti precedenti giurisprudenziali, siamo certi di aver dimostrato la correttezza dei criteri di valutazione adottati», hanno osservato.
CORRIERE DELLA SERA
FRANCESCO VERDERAMI
ROMA – «Solo noi sappiamo quante amarezze abbiamo subìto in questo periodo...».
Nel giorno in cui Donatella Dini viene condannata in primo grado per bancarotta, la battuta del diniano Natale D’Amico è rivelatrice di uno stato d’animo. Racconta quel che finora era rimasto solo un pissi- pissi di Palazzo nei giorni roventi della Finanziaria, quando al Senato Lamberto Dini minacciava di non votare la manovra, ed era guardato con sospetto dagli alleati di centrosinistra, accusato d’intendenza con il nemico, Silvio Berlusconi, che era determinato a dare la spallata a Romano Prodi.
Allora anche ai liberaldemocratici toccò ingoiare dei rospi, certe allusioni sulla sorte giudiziaria della moglie del loro leader, frasi smozzicate e pronunciate sottovoce. Il senatore D’Amico, che di «Lambertow» è uno degli uomini di fiducia, rammenta quell’atmosfera cupa, ne trasmette il clima. E dopo la sentenza del tribunale di Roma si toglie dei sassolini dalle scarpe: «Spero non sia una vendetta trasversale, spero che l’imbarbarimento del Paese non sia giunto a un simile livello, spero che non si cerchi di colpire un familiare per mandare un avvertimento, spero non si voglia strumentalizzare la vicenda».
E quando un politico ripete ossessivamente il verbo «sperare» è per non usare il verbo «sospettare». Perciò, conclude, «spero non ci siano attacchi impropri e velenosi verso Dini e i liberaldemocratici, che sono già stati accusati in modo ridicolo di essere al servizio di chissà quali poteri».
Non dev’essere stato facile ieri per l’ex premier salire al Quirinale in un giorno così difficile, con il timore confidato a pochi intimi che «mia moglie possa subire un’esposizione mediatica accresciuta per via della mia esposizione politica ». Nel giro di consultazioni informali avviato dal capo dello Stato per capire quali saranno i prossimi scenari, il leader di Liberaldemocratici ha ribadito la sua linea delle «mani libere» rispetto all’attuale esecutivo. E non è dato sapere se la vicenda che lo ha colpito in famiglia sia stata toccata anche solo di sfuggita nel colloquio.
certa però l’amarezza di «Lambertow » per un procedimento che a suo tempo fu avviato «senza neppure una denuncia »: «Ma sono sicuro – ha spiegato ai suoi – che Donatella alla fine ne uscirà pulita, perché in secondo grado dimostrerà che le accuse contro di lei sono infondate».
Ma la vicenda giudiziaria, come sempre in questi casi, assume un risvolto politico. E Dini – come confida D’Amico – «è preoccupato che sua moglie ne paghi il prezzo». Quale sia il prezzo, il senatore lo spiega senza infingimenti: «Prendiamo la nostra iniziativa in Parlamento sul welfare: ha avuto grande successo. Abbiamo dimostrato che le battaglie si possono fare e vincere. E noi l’abbiamo vinta». Perciò, malgrado la botta di ieri, il fondatore di Ld ha riunito il suo gruppo per ripetere che «noi non ci fermeremo ». «E se qualcuno pensa di bloccarci così, si sbaglia di grosso», avverte il coordinatore dei Liberaldemocratici, Italo Tanoni: «Questa vicenda non porrà fine alla nostra iniziativa politica».
ovvio però che nessuno ha dimenticato quelle battute, quei bisbiglii che tenevano banco nei capannelli di Palazzo durante i giorni caldi della Finanziaria. Daniela Melchiorre, che fa parte della pattuglia diniana, ammette di averle sentire, «eccome se le ho sentite, ma le ho sempre respinte al mittente ». La sottosegretaria alla Giustizia cerca di derubricare quelle «poco gradevoli » conversazioni: «C’è sempre qualcuno che va millantando o paventando qualcosa. Ma non per questo ci siamo fermati». vero, ma è altrettanto vero che sulla Finanziaria Ld non ha staccato la spina a Prodi. «Non siamo gli unici che potevamo farlo», replica: «E comunque la sentenza che riguarda la signora Dini, sentenza solo di primo grado, non possiamo interpretarla come un avvertimento. Io almeno spero non sia così».
Non è un caso che anche la Melchiorre usi il verbo «sperare », prima di ricordare che «vengo dalla magistratura e credo nella sua autonomia e indipendenza », e prima di sottolineare che «una cosa sono le aule di tribunale e altra cosa sono le Aule parlamentari ». Poi però molla il pedale del freno, si scaglia contro «le lingue biforcute », e dice: «Guai a loro». Così, riconosce che la politica è particolarmente sensibile sulla materia «dopo quanto accaduto in questi anni»: «Dunque capisco che possano lasciar stupiti certe straordinarie congiunture, le quali si verificano ogni qualvolta c’è chi fa sentire la propria voce».
In gergo si chiama giustizia a orologeria, questione spinosa e irrisolta, che non dev’essere solo frutto di sospetti infondati di Palazzo. Altrimenti ieri il Guardasigilli Clemente Mastella, osservando la dinamica degli eventi che hanno colpito casa Dini, non avrebbe detto: «Per ragioni di correttezza non parlo. Però sono vittima di queste cose». Però.
Lo sfogo del marito
«Sono sicuro che ne uscirà pulita, dimostrerà che sono accuse infondate»
LA REPUBBLICA 4/11/2007
FILIPPO CECCARELLI
Per quanto triste, per quanto scomoda, per quanto non solo prevista, ma anche ampiamente prevedibile, la condanna di ieri occuperà giusto qualche metro di pellicola nel film di Donatella Pasquali poi Zingone e quindi Dini: grande pattinatrice fra le nebbie della bassa padana, e velocissima spadaccina, e hostess olimpionica, e indossatrice sindacalizzata (Uil), come si scoprì un paio d´anni orsono riconoscendola, graziosa e paffuta come dettavano i canoni estetici d´allora, in una vecchia foto.
Giovane fidanzata di un uomo assai più anziano e facoltoso, il signor Zingone, che come imprenditore edilizio fonda una città per i suoi dipendenti dalle parti di Bergamo, Zingonia appunto; ma che preoccupato dall´avanzata del Pci lascia l´Italia e se la porta in Centroamerica, Costarica, e poi sposa Donatella contro tutto e contro tutti i figli di primo letto, che sono quattro e dopo trent´anni ancora le stanno addosso tipo Dallas o Dinasty.
Però poi lei è restata vedova, e «ci sono momenti duri nella vita che affilano l´immaginazione», al punto che Donatella, che è ancora una bella mora, ma anche una donna intraprendente e spericolata, resta laggiù e diventa una miliardaria, edilizia, supermercati, agricoltura, comunicazione, Grupo Zeta, un marchio scenografico e romanzesco, i personaggi più strani, divertenti e misteriosi, e anche le cattive compagnie, per forza.
E qui ci si potrebbe fermare, perché ce n´è già abbastanza, e invece a un certo punto, bordeggiando l´universo della finanza, Donatella conosce quello che è allora un maturo leone del Fondo Monetario e poi una stella della Banca d´Italia, quindi il ministro dell´Economia di Berlusconi, insomma Lamberto Dini, e se lo sposa o si fa sposare. Condizione che di lì a poco, tra il 1994 e il 1995, fa di Donatella, nuestra senora del ribaltòn, la prima consapevole first lady della Seconda Repubblica. First lady, beninteso, all´italiana, nell´accezione sbilenca che la anglicizzante definizione si tira appresso, dall´ornamentale all´invasivo, un modello adeguato al genius loci e ai tempi, questi ultimi anzi ben decisa a precorrerli a colpi di sgarciantissimi Versace e compassionevole Unicef, vistosissima gioielleria e vibrante intimità rivelatoria, in una funzionalità autopromozionale, ma estesa anche a reclamizzare l´immagine di Lui, «il meglio fico del bigoncio», ma quale rospo, «a me sembra un cocker spaniel, non bello ma tanto simpatico».
Dice Donatella: «Lavorerò per il paese». Fonda e finanzia Rinnovamento italiano, anch´esso profetico bagliore del partito famigliare alla Mastella; manda il figliolo, Cesare, sveglio, ma con camicie dagli enormi colletti, a trattare le candidature ai vertici del centrosinistra. Comunque piace, ha successo, è ancora bella, è dinamica, è salottiera, Pecci Blunt e dintorni, ama i mercatini e l´antiquariato, a Roma lavora nello stesso palazzo di Andreotti, a Firenze abita in una villa medicea, si fa fotografare con un´enigmatica maschera carnevalesca in mano; o alla guida di un´auto d´epoca Excalibur; o intenta a palpeggiare alcune monete antiche nel salotto di casa, che è la foresteria di Paolina Bonaparte, come scrivono ammirati i rotocalchi; o mentre con sincera gioia esibisce un poster rinforzatamente sacrilego, a forma di dollaro e in mezzo il volto del futuro ministro degli Esteri, e la scritta «In Lamberto we trust».
Domanda ad uso e consumo dell´ideale sceneggiatore del film su Donatella: ma come è possibile che tutto questo non abbia un prezzo? E infatti ce l´ha. Per introdurre il cambio di registro, la fine della spensieratezza, l´ombra nera che s´approssima, ecco, il copione prevede di mostrare questa prima donna che nei suoi giorni di sole, non senza una certa sportiva ritrosia, non sa resistere alla tentazione di recitare certe sue creazioni poetiche sul divano beneducato di Rispoli. E allora: «La vita è come il mio Tropico/ esuberante e attraente/ ma sotto ogni foglia/ ci può essere un serpente».
E già: uno o più serpenti, meglio un sacco di serpenti, senza per questo comprendere nella categoria i pubblici ministeri e le giurie che fanno il loro dovere. Più in generale - e con i criteri delle vecchie zie - l´impressione è che sotto le foglie di un´esistenza esuberante si sia mosso quel genere di rettilario che sempre reca in dote il culto sconsiderato dei quattrini, del potere, dell´apparenza, della furbizia, della bella figura. Ma questo sfondo, più malinconico che moraleggiante, quest´ultimo spezzone che le ha scaricato addosso anche le cervellotiche invenzioni di un Igor Marini, ecco, tutto questo non toglie che Donatella, ormai impelagata in un certo numero di inchieste giudiziarie, cessi di essere un personaggio di inaudito temperamento. Tale da aver rotto l´assedio di Striscia la notizia (febbraio 1998) personalmente versando dalle finestre aziendali un barattolone di miele liquido sui portatori del Tapiro d´oro. Scena di evoluta risonanza primaria, si converrà, dolce e appiccicosa e di straniante rilievo spettacolare.