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 2007  dicembre 02 Domenica calendario

ROMA – «Non ho mai parlato di politica in vita mia. Controlli negli archivi: non troverà una sola intervista al riguardo

ROMA – «Non ho mai parlato di politica in vita mia. Controlli negli archivi: non troverà una sola intervista al riguardo. Non mi schiero. Non milito. Faccio un altro mestiere». Però, nel giorno in cui esce il dvd con il suo concerto all’Onu, aperto da «Voci dal Silenzio » il brano composto dopo l’11 settembre, Ennio Morricone ha una cosa da dire: «A me pare che l’Italia si stia rimettendo in sesto. Sono contento di questo governo: ha lavorato per il bene di tutti, nell’interesse del paese. L’altro giorno ho sentito al telegiornale il segretario dell’Udc, Cesa, dire che Berlusconi ha sbagliato a fare leggi per se stesso; ma noi italiani ce n’eravamo già accorti, e sappiamo bene che Cesa, Casini e tutti gli altri quelle leggi le hanno votate. Intendiamoci: io non ce l’ho con Berlusconi. Lo considero un genio. Dell’imprenditoria e della comunicazione, però; non della politica. Ora che la Casa delle Libertà si disintegra, lui pensa di rifondarla da solo, unificandosi con se stesso. Sbaglierò; ma rischia di perdere consensi anziché conquistarne». Dicono che gli uomini di spettacolo si vadano sostituendo ai politici: Celentano, Benigni, Grillo. «Celentano lo considero un grande, fin da quando lo incontrai a Sanremo: cantava "Il ragazzo della via Gluck" e incredibilmente fu eliminato. Benigni mi piace molto: è un fuoriclasse vero. Grillo è bravissimo, ma ha esagerato nei toni; però è stato utile a dare una scossa». Ennio Morricone, premio Oscar alla carriera, il musicista italiano più noto al mondo, non ha perso l’accento di Trastevere, dov’è nato quasi 80 anni fa. Ma è un romano d’altri tempi, cortese, disponibile, semplice; di quelli che inorridiscono di fronte all’occupazione dei taxi di piazza Venezia, che ha seguito dalle finestre del salone di casa, affacciato sul Campidoglio. «Non sono mai stato comunista, né socialista. Ricordo Togliatti nel ”56 appoggiare l’invasione dell’Ungheria, spiegando con la sua vocetta che l’intervento dei carri armati era stato richiesto dal governo di Budapest: ma si sapeva che non era vero! Sono cattolico, nella Prima Repubblica votavo democristiano. Del resto, Gesù per me è stato il primo comunista. Mi sento dalla parte dei poveri, anche se ho una bella casa; ma i soldi non li ho rubati…». «Ho ammirato De Gasperi. Ho condiviso il progetto di Moro di aggregare al centro le forze popolari. Avevo un’alta concezione di Craxi. E ho sempre stimato Andreotti: sono stato felice che sia stato assolto, e che abbia sempre rispettato i magistrati, a differenza di altri. Il cinema italiano era tutto di sinistra. L’unico film "di destra" fu quello che feci con Maurizio Liverani, il critico di Paese Sera: si chiamava Lo sai cosa faceva Stalin alle donne?, era una satira anticomunista. Non ebbe molto successo. Con Sergio Leone non abbiamo mai parlato di politica. Giù la testa però è un film politico, su terrorismo e rivoluzione». «Nella mia famiglia, il fascismo non l’abbiamo vissuto come un dramma. Però quando il Duce annunciò la dichiarazione di guerra mia madre, che lo ascoltava alla radio, scoppiò in lacrime, e io con lei. Mio padre suonava la tromba. Non eravamo poveri, ma con la guerra arrivò la fame: i surrogati, il pane appiccicoso, la mollica che sembrava colla. Mio zio aveva una falegnameria, e io impolveratissimo andavo con il triciclo a prendere sacchi di trucioli per portarli dal fornaio: ogni dieci sacchi, un chilo di pane. Le notizie arrivavano come attutite. Al mattino studiavo al conservatorio, la sera suonavo la tromba per gli ufficiali tedeschi, riuniti al Florida di via Crispi, a ballare i valzer di Strauss con le ragazze romane. Un giorno in piazza Colonna incontrai un prete partigiano, don Paolo Pecoraro, che mi disse: tra poco ne sentirete delle belle. Seguì un botto. Era la bomba di via Rasella. Poi arrivarono gli americani, e suonavo per loro negli alberghi di via Cavour. Non ci davano soldi ma cibo – pane bianco, cioccolata, anche pietanze cucinate – e sigarette; io non fumavo, rivendevo le sigarette e portavo i soldi a casa. La notizia della morte del Duce mi lasciò indifferente. Però quando vidi le sue foto, appeso al distributore di piazzale Loreto, mi commossi. Piansi anche per il re, quando perse il referendum e fu costretto all’esilio. Certo, sapevo che Vittorio Emanuele III se l’era squagliata, ma per me la monarchia era l’Italia del Risorgimento, che finiva per sempre». «Della politica di oggi non mi piacciono gli insulti ai senatori a vita, e le calunnie contro Prodi. In questo modo hanno aiutato il governo a resistere. La spallata quotidiana ha finito per sostenerlo; al punto da farmi credere che nessuno, Berlusconi compreso, volesse buttarlo giù davvero. In privato mi sono sentito spiegare, anche da esponenti del centrodestra, che l’Italia per risorgere ha bisogno di dieci anni di lacrime e sangue. Poi gli stessi li rivedo al tg, con gli occhi fissi non all’interlocutore ma alle telecamere, attaccare Prodi e Padoa Schioppa. Io Prodi e Padoa Schioppa non li ho mai incontrati in vita mia, ma apprezzo come stanno cercando di rimediare al dissesto che hanno trovato. Lo so, che la maggioranza spesso è divisa. Ma è normale che in un’alleanza ci siano contrasti. La sinistra che chiamano radicale non è poi così irragionevole: la finanziaria l’ha votata, ora pure la riforma delle pensioni e del welfare; siamo leali all’alleato americano, visto che in Afghanistan si resta e la base di Vicenza si fa. Piuttosto mi pare Dini a tenere sotto pressione il governo; ma non credo lo farà cadere. La Lega? Chi insulta Roma e il Sud non può avere la mia simpatia. La Brambilla? Una bella donna. Nel centrodestra il migliore è Fini. Il più serio. Uno che non ha bisogno di alzare la voce». «Comunque non farò mai politica. Rutelli mi nominò per decreto nel consiglio d’amministrazione del teatro dell’Opera di Roma: sono andato una volta sola, per dire che sarebbe stata l’ultima. Non ho il tempo per occuparmi di altro dopo il mio lavoro». Però Morricone è stato eletto nella Costituente del partito democratico, con più voti di parecchi politici professionisti. «A mia insaputa. E’ andata così. Quest’estate una persona che lavora con me mi mostrò un fax: era il "documento dei coraggiosi" di Rutelli. Parole che chiunque, anche Bossi, avrebbe potuto condividere. Le ho condivise. Poi mi telefonò un politico e mi chiese se ero d’accordo anche con Veltroni, visto che Rutelli lo appoggiava. Risposi di sì: conosco Veltroni da una vita, ricordo sua madre, una persona deliziosa. Fatto sta che mi ritrovai in cima a una lista per Veltroni. Ho chiesto di essere depennato, mi hanno risposto che era tardi. Allora ho scritto a Veltroni, per spiegargli che alla Costituente non sarei mai andato. Ho una sua lettera di risposta, molto cortese. E’ d’accordo con me: quel che posso fare per l’Italia, lo farò con la musica». «Il mio sogno è sempre stato reinterpretare l’inno di Mameli. L’ho realizzato per Cefalonia, il film per la tv: una versione più lenta, solenne. Ma quando diressi al Quirinale il cerimoniale mi bloccò. Tempo prima un consigliere di Ciampi era venuto a chiedermi un parere sull’inno. Risposi che musicalmente non vale l’inno francese, tedesco, inglese, russo; anche se per noi ha un valore simbolico che riguarda il nostro Risorgimento. E proposi un concorso tra compositori per scriverne uno nuovo; ma precisai che ci sarebbero volute tre commissioni, per selezionare testi e musiche. Non se ne fece nulla».