Robert Kagan, Corriere della Sera 2/12/2007, 2 dicembre 2007
Sembra che ci sia sempre un buon motivo per sostenere un dittatore. Verso la fine degli anni Settanta, Jeane Kirkpatrick affermava che era meglio appoggiare un dittatore di «destra » piuttosto che ritrovarsi i comunisti al governo
Sembra che ci sia sempre un buon motivo per sostenere un dittatore. Verso la fine degli anni Settanta, Jeane Kirkpatrick affermava che era meglio appoggiare un dittatore di «destra » piuttosto che ritrovarsi i comunisti al governo. La dittatura di destra – che oggi alcuni chiamano «autocrazia liberale» – era vista, in ogni caso, come una tappa necessaria sulla strada della democrazia. I regimi totalitari comunisti non avrebbero mai rinunciato al potere e soffocavano ogni speranza di libertà, invece i dittatori, amici degli americani, prima o poi avrebbero dato spazio alle politiche liberali. L’amministrazione Reagan e la storia hanno sconfessato tutte e due le facce di questa dottrina. In realtà, i dittatori di destra come Ferdinand Marcos e la giunta militare sudcoreana, e altri tiranni prima di loro, lasciavano il potere solo se costretti. Per ironia della sorte, è stato invece un leader comunista dell’Unione Sovietica a fare quei passi che alla fine hanno portato al crollo del suo regime. Durante la Guerra Fredda, la Kirkpatrick e molti altri, tra cui i più eminenti neoconservatori e molti esponenti dell’establishment americano in materia di politica estera, prestarono fede agli imbonimenti interessati dei dittatori. Costoro sostenevano immancabilmente che o si puntellava il loro potere o si consegnava il Paese nelle mani dei comunisti. E assicuravano sempre che non esistevano altre scelte possibili. In Nicaragua, Anastasio Somoza eliminò sistematicamente le alternative democratiche e moderate al suo governo, perché sapeva che gli americani le avrebbero appoggiate contro di lui. Quando Jimmy Carter e il suo governo trovarono il coraggio di estromettere Somoza, i rivoluzionari sandinisti lo avevano già aiutato a smantellare l’ala moderata e fecero in modo di impadronirsi del Paese. Oggi, anche Pervez Musharraf ripete il vecchio gioco, come Hosni Mubarak in Egitto, e sembra che stia funzionando. Al posto dei comunisti, ecco gli islamisti radicali, ma il discorso non cambia: après moi, le déluge, se mi costringete ad andarmene, vinceranno i fondamentalisti. E anche Musharraf fa di tutto perché non vi siano altre opzioni. Il presidente pakistano usa la mano pesante con i moderati democratici, molto più di quanto abbia fatto con Al-Qaeda. Se resiste abbastanza a lungo, potrebbe spingere l’opposizione verso posizioni estremiste, eliminando qualsiasi alternativa moderata. Questo è uno dei tanti difetti dell’«autocrazia liberale ». Il dittatore non è il buon pastore che guida il suo popolo, come Mosè, verso la terra promessa della democrazia. Quando la scelta è tra il bene del Paese e restare aggrappato al potere, l’autocrate agisce quasi sempre nel suo interesse. Per dimostrare che è insostituibile, deve fare in modo che non esista la possibilità di sostituirlo, il che significa eliminare o azzoppare le istituzioni indipendenti, indebolire il principio della legalità, spingere la popolazione agli estremismi, in poche parole, l’esatto contrario di quanto ci si aspetta dal tanto mitizzato «autocrate liberale». Quando la Kirkpatrick spiegò i motivi per cui appoggiava la dittatura di destra, si riferiva principalmente alla cacciata dello scià di Iran. Oggi, quasi trent’anni dopo, viene riproposto sempre il medesimo caso. come se non avessimo imparato niente negli anni Ottanta e Novanta, quando il tempestivo rovesciamento delle dittature di destra non produsse radicalismo, bensì una democrazia moderata nelle Filippine, nel Salvador, in Sud Corea e altrove. Musharraf non ha niente a che fare con lo scià di Iran: non è la personificazione vivente di un regime, come lo fu lo scià. Non è insostituibile. Non è l’unico salvatore di un intero sistema di governo. solo un generale e neanche particolarmente bravo. Ci sono altri generali. Con tutti i miliardi di dollari che gli Stati Uniti spendono in aiuti per il Pakistan, dovrebbe essere possibile discutere con i militari pachistani quali potrebbero essere le alternative a un uomo incapace di difendere i loro interessi. Musharraf potrebbe essere disposto a rinunciare agli aiuti americani per rimanere al potere, ma non è una prospettiva allettante per i suoi uomini. Bisognerebbe trovare un generale disposto a rimettere il Pakistan sulla strada della democrazia e, allo stesso tempo, a combattere con più efficacia i veri nemici del Paese. Molto dipende dall’abilità dell’amministrazione Bush nel guidare il Pakistan in questo passaggio. L’affermazione del presidente Bush, che ci si può fidare di Musharraf per riportare il Pakistan verso la democrazia, non è credibile. Nei suoi giorni migliori, l’America ha sempre fatto capire a questi leader quando il loro tempo era scaduto. Se il governo Bush non trova il coraggio o la capacità di sostituire quest’uomo così sostituibile nel nome della democrazia pachistana, solo perché teme l’alternativa, allora farebbe meglio a risparmiarsi la sua ridicola retorica sulla promozione dei principi democratici. Inoltre farebbe meglio ad abituarsi a un Medio Oriente e a un mondo musulmano in cui esistono solo due tipi di regime: gli islamisti radicali e i dittatori ostinati. Si spera tuttavia che Bush non voglia lasciare una simile eredità al suo successore.