Salvatore Bragantini, Corriere della Sera 2/12/2007, 2 dicembre 2007
Il Testo Unico Bancario ha riconosciuto ufficialmente nel ’93 che la banca è un’ impresa, operante sul mercato
Il Testo Unico Bancario ha riconosciuto ufficialmente nel ’93 che la banca è un’ impresa, operante sul mercato. Nel ’99 in Usa si è abrogata la legge Glass Steagall, che dal ’33 teneva separate banche commerciali e investment bank. La grande ondata di deregulation che ne è seguita ha sì permesso di ridistribuire i rischi, ma il loro volume totale non cambia. I mercati sono più «spessi», ma è anche più arduo capire dove sia finito il rischio: spesso a chi non può né valutarlo né sopportarlo. Ora il mondo finanziario pare credere che, nonostante il turmoil, lo spettacolo continuerà come prima. Il totale dei bonus delle grandi «case» finanziarie Usa nel 2007 dovrebbe collocarsi a nord dei 36 miliardi di dollari che tanto scalpore fecero nel 2006, a 38 miliardi, da distribuire fra meno di 200 mila persone: per la gioia dei venditori di attici con vista su Central Park, o di auto più care di una casa. Il troppo stroppia; la crisi estiva e i suoi plumbei sviluppi autunnali preannunciano un’inversione di marcia. difficile che il turbo- capitalismo, col suo sfruttamento esasperato dell’effetto leva, possa sfuggire ad un periodo, se non di sobrietà, di minori eccessi. Ciò non solo per la naturale reazione agli eventi: se ieri tutto andava, oggi niente va. Si veda il drastico, ed irrazionale, ridimensionamento delle quotazioni delle small cap, duramente colpite dalla fase presente di «fuga verso la liquidità». C’è molto più di questo. Come già scritto a fine settembre sul Corriere, il pendolo della deregulation tornerà indietro. Dato che gli eccessi li paga comunque la collettività, guadagna terreno la convinzione che essa debba occuparsi di più di come operano le grandi «case»: non solo le banche, ma anche quelle «quasi banche» che l’inesauribile inventiva finanziaria escogita per aggirare i vincoli sulle banche vere e proprie. Un conto è operare sul mercato senza diktat di autorità amministrative o politiche, soggette al variare delle maggioranze e magari inclini a giocare la partita in proprio; questi diktat vanno evitati, ma sbaglierebbe il sistema finanziario se pretendesse di massimizzare i profitti ignorando i rischi corrispondenti, nella convinzione che, al caso, la collettività, grande benefattrice, non farà mancare il suo materno sostegno. In un recente articolo sul Financial Times, Martin Wolf ha ben messo in luce i termini del problema, muovendo – grazie a uno studio di due inglesi, Andrew Smithers e Geoffrey Wood – da tre domande sulle banche: perché le loro crisi hanno conseguenze così vaste, perché guadagnano tanto sui mezzi propri e perché, nonostante ciò, pagano così bene il management? Le banche, nello svolgere la loro attività, curano beni che, pur non di proprietà pubblica, sono di utilità generale: detengono i risparmi di tutti, e li muovono sul sistema dei pagamenti. Mantenere questo sistema efficiente, e viva la fiducia pubblica, ha un costo che lo Stato ha interesse a minimizzare, per preservare quei beni di pubblica utilità; lo fa con l’assicurazione sui depositi, e mettendo a disposizione, tramite le banche centrali, i prestiti di ultima istanza. I creditori, così rassicurati, si accontentano di tassi più bassi. Ciò consente alle banche di operare con costi minori e, soprattutto, un capitale ridotto rispetto a quanto sarebbe altrimenti necessario, tenuto conto dei rischi che esse corrono, anche sul mercato dei capitali. I conti saltano se l’ossessiva attenzione al valore dell’azione – dovuta al timore di scalate ostili, o peggio all’avidità, da stock option – induce il management a correre rischi, anche reputazionali, così grandi da poter spazzar via come un fuscello la sottile base di capitale al riparo della quale la banca opera. Gli incentivi della mano invisibile spingono a rischiare; ciò esalta i rendimenti ma, se va male, una volta eroso il capitale, tocca a Pantalone, cui perciò incombe il dovere di prevenire. Come? Dato che non siamo pronti a lasciar fallire una banca – con tutto ciò che questo comporta – appena le previsioni meteo miglioreranno, le banche e i loro azionisti dovranno accettare la ovvia conseguenza: serve più capitale per lavorare. Il pendolo sta per invertire la direzione di marcia, e la vigilanza integrata dei gruppi transnazionali, chiesta da Padoa-Schioppa all’Ecofin, potrebbe partire da qui. Non ci sarà, magari negli Usa, qualcuno che è too big to fail?