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 2007  dicembre 02 Domenica calendario

ROMA – Che senso può avere acquistare in via Montenapoleone una «piattina» di Prada a 440 euro e poi scoprire che la stessa borsetta in nylon e pelle ha un costo di fabbrica di 28 euro in un laboratorio artigianale di Arzano in provincia di Napoli? La filiera dei prodotti di lusso – almeno come l’ha mostrata ieri sera Report di Milena Gabanelli su Raitre – segue un percorso tortuoso e non sempre limpido che può approdare nei capannoni anonimi dove si lavora in nero se non in condizioni di semischiavitù quando la manodopera è cinese

ROMA – Che senso può avere acquistare in via Montenapoleone una «piattina» di Prada a 440 euro e poi scoprire che la stessa borsetta in nylon e pelle ha un costo di fabbrica di 28 euro in un laboratorio artigianale di Arzano in provincia di Napoli? La filiera dei prodotti di lusso – almeno come l’ha mostrata ieri sera Report di Milena Gabanelli su Raitre – segue un percorso tortuoso e non sempre limpido che può approdare nei capannoni anonimi dove si lavora in nero se non in condizioni di semischiavitù quando la manodopera è cinese. I sub fornitori e gli intermediari, però, ogni tanto finiscono nel mirino della Guardia di Finanza prima ancora che gli ispettori della grandi case di moda possano recidere il cordone ombelicale con l’unità produttiva fuori dalle regole. «Schiavi del lusso» – l’inchiesta di Raitre portata a termine da Sabrina Giannini nonostante veti e sgambetti degli uffici stampa della case di moda – ha filmato le facce terrorizzate dei clandestini cinesi che lavorano di notte nei capannoni oscurati di Prato e i mutismi degli operai italiani reclutati in Campania che negano anche l’evidenza davanti alle Fiamme Gialle: «Sono in prova, non so quanto mi pagheranno, se mi conviene resto...». Il meccanismo – che può lambire tutte le grandi case: Prada, Fendi, Dolce & Gabbana, Ferragamo e altri ancora – lo ha ricostruito Report dopo aver ascoltato i titolari, italiani e cinesi, di vari laboratori artigiani: «Abbassando così tanto i costi di produzione è evidente che strangoli il fornitore e crei i presupposti per il nero... ». Se per garantirsi il marchio «Made in Italy» basta Milena Gabanelli, conduce Report applicare una tracolla italiana a una borsetta prodotta in Cina, c’è invece chi affronta i rischi d’impresa. In Toscana, Andrea Calistri ha creato il consorzio «100% italiano» che comporta per l’azienda che appalta il controllo sull’intera filiera produttiva: «La globalizzazione spinta porta a fare scelte non esattamente drastiche come quelle che abbiamo fatto noi. Ma ho imparato che non è etico scrivere "Made in Italy" su prodotti fatti in Cina». E tra gli imprenditori del lusso che hanno sempre sostenuto il grande artigianato italiano, Report ha ascoltato Diego Della Valle, il titolare della Tod’s: «Io dico ad altri marchi importanti come il nostro che dobbiamo stare molto attenti a non annacquare la grande considerazione che hanno nel mondo per il "Made in Italy". Altrimenti, se non stiamo attenti, il "Made in Italy" ce lo giochiamo un po’ alla volta». Infine, il giornalismo che spesso rischia di osannare il mondo della moda. Report ha rotto un tabù, raccontando di giornaliste che scrivono di sfilate e poi accettano consulenze dalle stesse case che recensiscono; di servizi imposti dagli inserzionisti pubblicitari; di reprimende alle direttrici che decidono di testa loro, magari valorizzando uno stilista emergente; della direttrice di Vogue Italia che accetterebbe gli scatti di un solo fotografo italiano, che poi è suo figlio; di una nota giornalista del Tg3 che, dopo la presentazione della collezione di Cesare Paciotti, avrebbe scelto nello showroom dello stilista «un paio di scarpe di suo gradimento».