Pierangelo Sapegno, La Stampa 2/12/2007, 2 dicembre 2007
Churchill diceva che gli italiani sono uno strano popolo: «Fanno le guerre come se fossero partite di calcio
Churchill diceva che gli italiani sono uno strano popolo: «Fanno le guerre come se fossero partite di calcio. E le partite come se fossero delle guerre». Se aveva ragione, non stupiamoci più di niente. Per una partita di calcio, da noi capita pure che la prigione sia la tua casa, come in questo enorme palazzo di via Fava, a Catania, con i panni stesi al primo piano di fronte all’uscio chiuso del portiere, scritto tutto in maiuscolo con una tinta che manda strani barbagli nei colori vespertini della vigilia, in questo edificio un po’ scrostato dal tempo, dove vivono 165 famiglie e 700 persone, costrette, ogni volta che si gioca allo stadio, a non poter uscire e a non poter entrare, e a non poter nemmeno morire, come dice Giuseppe Motta, un ragazzone stretto nel suo giubbotto blu chiuso fino al collo, che abita lì, a quella finestra spenta che indica con il dito. «Domani che si gioca Catania-Palermo, se qualcuno sta male, l’ambulanza non può neppure venire. Tutto bloccato. Deve ripassare lunedì». Perché, dopo che morì l’ispettore capo Filippo Raciti, hanno tirato su delle gabbie colorate che da un lato chiudono la strada all’incrocio con via Ferrante Aporti, dall’altro con la recinzione che blinda il perimetro di piazza Spedini. Motivi di sicurezza. Circondati Poi circondano la casa di camionette, carabinieri e polizia, e posti di blocco. Lo stadio è lì di fronte. Zona a rischio, dicono. Il chiosco dove venne aggredito Filippo Raciti è qui, a dieci passi. Quella sera, quel 2 febbraio, dopo quel Catania-Palermo, entrarono anche qui dentro, in questo cortile di asfalto che si allarga come una piazza, a picchiarsi, inseguirsi, a colorare una sera come un incubo, a coprirla d’orrore e tirarsi bombe, lacrimogeni, e pietre, e ogni cosa che potevano. Lucrezia Palumbo vedeva tutto dalla sua finestra, là in fondo, come suo fratello Giovanni, e come Roberta Negretti. Erano barricati in casa, non facevano niente. Però, pagano loro per tutti. La domenica devono stare prigionieri in casa, non possono uscire, neppure andare a Messa, a trovare un fidanzato o un parente, e nemmeno rientrare. «Neanche se facciamo vedere la carta d’identità», come spiega ancora Giovanni Motta. «Non c’è verso, niente. Venga qui domani a vedere, se non ci crede». Un palazzo sotto assedio, solo perché si gioca una partita di calcio: e per assurdo devono stare tutti tappati fra le quattro mura a sentire i cori e le urla dello stadio, anche se non gliene frega niente, anche se non sopportano il pallone come Lucrezia, tutti così, come durante una guerra ci si chiude nei rifugi durante le incursioni aeree, assordati dalle sirene e dalle bombe che cadono. Giovanni Palumbo dice che suo padre ha protestato, ha fatto la voce grossa. Ma non è servito a niente. E Roberta Negretti spiega che oggi lei va da sua nonna: «Così potrò essere libera». Se no, «vivi prigioniero dentro le urla» (Giovanni allunga la mano verso il palazzo, di là dove c’è lo stadio), «dentro i mortaretti, le esplosioni, assordato da una partita come una punizione». Il portinaio, Armando Catulli, ricorda quella sera del 2 febbraio e quanto tempo è passato, nove mesi esatti. Siamo di nuovo a Catania-Palermo. «Io vado via. Torno lunedì», dice. «Ma è normale che loro siano esasperati. Sono passati dal terrore alla prigione. Una prigione per vivere in pace. Che senso ha? Perché devono pagare loro?». La cosa strana è che tutt’attorno raccontano Catania come guarita da quella sera, e da quella morte. Solo Marisa Grasso, la vedova di Raciti, tuona ancora: «I tifosi del Catania sono i più facinorosi e violenti, secondo me l’Osservatorio dovrebbe vietarle a loro le partite». Ma il questore, Michele Capomacchia, dice che invece molto è stato fatto, «e che mi piacerebbe che proprio dal calcio passasse il riscatto dell’immagine di una città che nella sua parte più grande sa vivere e tifare con passione». E il sindaco, Umberto Scapagnini, assicura che «adesso si respira un’aria nuova. Le ferite lasciano cicatrici, ma aggiungono esperienza e spessore». Verissimo. Perché, però, nessuno parla mai dei prezzi che si pagano? Ed è giusto imprigionare della gente per garantirgli la sicurezza? Che senso hanno le domeniche di Armando Catulli, e di Giovanni Motta, e di Lucrezia Palumbo, e di 165 famiglie, più di 700 persone, costrette a vivere il giorno della festa senza poterla celebrare? E’ così sacro il calcio? A vederlo da qui, questo gigantesco e vecchio palazzo ex Iacp di via Giuseppe Fava, con le mura delle quinte scrostate e ingrigite come se l’avessero dimenticato, qualche vaso di gerani alla finestra e la biancheria stesa sul cortile, sembra davvero il simbolo di questo mondo senza senso, di questo Paese senza giustizia. La sua mole incombe come una colpa a poche decine di passi da piazza Spedini, di fronte al chiosco, dove avvennero gli scontri del 2 febbraio, quando morì l’ispettore capo Filippo Raciti, che fu colpito da una spranga e mentre lo portavano in ospedale diceva: «Va tutto bene, adesso mi sento meglio. Non è successo niente». Come se fosse impossibile quello che gli stava accadendo. Perché forse non è un caso che tutto sia cominciato così, con una morte quasi irreale, dopo una partita assurda, inventata da uno dei peggiori arbitri che ci sia in circolazione, il signor Farina da Novi Ligure, e continuata con quella guerriglia senza senso fuori dal campo. Se qualcosa è cambiato da allora, c’è rimasto però questo angolo, questo vecchio palazzo Anni Cinquanta, con questa sua dimensione così kafkiana, con questi incredibili prigionieri di un idolo, a spiegare al mondo che qualche volta anche Churchill aveva ragione quando scherzava sugli italiani.