Giulia Zonca, La Stampa 2/12/2007, 2 dicembre 2007
Un successo costruito sui fallimenti. Una placca dopo l’altra, un pezzo di acciaio alla volta per tenere insieme 48 ossa rotte ed entrare nella leggenda
Un successo costruito sui fallimenti. Una placca dopo l’altra, un pezzo di acciaio alla volta per tenere insieme 48 ossa rotte ed entrare nella leggenda. Un posto fumettoso e colorato dove Evel Knievel starà per sempre. Il motociclistica acrobatico è morto ieri, a 69 anni, distrutto da una vita sballata che lo ha reso all’improvviso vulnerabile, lui, il supereroe, Daredevil come il diavolo rosso della Marvel. Il pazzo che ha provato a saltare un canyon, la fontana davanti al Caesars Palace, a Las Vegas, 13 autobus impilati a Wembley, ruote infuocate e macchine scassate. Cadeva, si spaccava e si rialzava in cerca di ostacoli più complicati e affascinanti. Con il casco e le tute a stelle strisce, in anni in cui l’America nascondeva la bandiera. Primi Settanta, cioè Vietnam e Watergate e ai margini Evel Knievel: leggerezza sulla moto truccata e speranza dipinta a tinte forti. Lustrini che coprivano anni bui. Lo adoravano, lo seguivano inebriati dalla voglia di impossibile, spettatori-seguaci, pigiati su tribune traballanti e collinette scivolose. Mister attrazione faceva il gradasso con le scollature abbondanti, i peli in vista, le dita inanellate. Lo chiamavano stuntman, ma era riduttivo: Knievel non faceva la controfigura per attori pavidi, impersonava ben altro, un bisogno collettivo. Era indistruttibile e non certo perché non sbagliasse mai, anzi. Si accartocciava come un disegno animato o usciva in barella tutto ammaccato. Anche se non gli è riuscita una sola impresa, ha sempre trovato un nuovo confine con cui giocare. Il guitto ha iniziato rubando Harley Davidson, poi ha aperto un negozio di pezzi di ricambio e messo su un gruppo di spericolati, «Evel Knievel’s Motorcycle Daredevils». Era il 1965 e ha deciso quasi subito di fare da solo, sgasava e superava ammassi di lamiere. Applausi, però serviva altro, un grande sogno a occhi aperti come volare oltre la fontana del Caesars Palace e nel 1968 ha realizzato lo show. Finito contro un muro, prima disfatta e primo passo verso il divismo. Gli hanno dedicato canzoni folk, film, serie televisive e lui, entusiasta, non riprovava mai lo stesso numero. Nel 1974 ha tentato di passare da una parte all’altra dello Snake River Canyon, nell’Idaho. Voleva il Grand Canyon, quello vero, però gli hanno negato i permessi e si è adattato: 500 metri di fosso e 40 mila persone a guardarlo, paganti. Venticinque dollari a testa per un boato sul disastro: il paracadute di sicurezza si è aperto al via trascinando il razzo di Knievel dentro lo strapiombo. Poteva ammazzarsi e invece si è salvato e non è stata neppure la volta peggiore. Beveva e faceva a pugni, deve il suo nome a una scazzottata: all’anagrafe risultava come Robert Craig Knievel, arrestato per baruffe, si è lasciato ribatezzare Evil, diabolico, e con il tempo ha cambiato la vocale e tenuto il nome artistico. Litigava con i manager e giusto prima di morire ha buttato mesi in una causa contro un rapper che ha usato in un video vecchie immagini come omaggio. Le icone non svendono pezzi di gloria. Non era un donnaiolo, due matrimoni e altrettanti divorzi, solo che è comunque rimasto insieme all’ultima fiamma, sposata proprio a Caesars Palace, dove ha iniziato frantumarsi. Lei si chiama Krystal Kennedy, un bambolone biondo con la metà dei suoi anni. Lo ha visto risorgere infinite volte, una a Clearwater, a casa, nel Montana, quando lo stava accompagnando a morire. Knievel aspettava un trapianto, i medici gli hanno dato 48 ore e «non volevo schiattare in ospedale». Sulla strada è suonato il telefono: un incidente a Miami, un donatore, inversione a U e operazione: «Quando sei superman aspetti sempre il colpo di scena». Stavolta no, aveva l’epatite C, contratta in una trasfusione mal riuscita durante uno dei tanti interventi. Ha passato 3 dei suoi 69 anni in ospedale, gli altri a volare. Organizzava spettacoli fatti di fuochi d’artificio e rulli di tamburi, roba semplice e immediata: lui seguito da un cono di luce, musica drammatica e boom: l’uomo bionico a gambe all’aria, rattoppato con ago filo e fotografato stordito e sorridente. L’unica immagine di un reduce felice nel 1974. Suo figlio Robbie ha ereditato il mestiere: gli è riuscito tutto, compreso il salto della fontana, eppure il suo nome non ha smosso nulla. Non era un fumetto dentro la contestazione. Knievel si è ritirato nel 1980, si è tenuto le moto e il costume di pelle con le stelle bianche, rosse e blu. Era il suo travestimento da supereroe e di certo lo avrà ancora addosso. Stampa Articolo