Barbara Schiavulli, La Stampa 2/12/2007, 2 dicembre 2007
BARBARA SCHIAVULLI
TEHERAN
Fanno impazzire le ragazzine. Sono belli, ricchi e famosi. E fortunati: hanno avuto il permesso dalla commissione del Ministero della Cultura iraniano di poter incidere ed esibirsi. Superato il problema burocratico di due ragazze che cantano e una che suona, gli Arian hanno venduto con il loro secondo album più di 2 milioni di copie, più di qualsiasi altro gruppo musicale nella storia dell’Iran. Ora preparano il quarto e sono eccitatissimi, hanno appena registrato un brano con il cantautore irlandese Chris de Burg e già sognano una fama che vola oltre i confini dell’Iran. Fanno musica pop, che fa storcere il naso ai religiosi e fa ballare i ragazzini di nascosto in un Paese dove non ci sono discoteche e, il ballo, tranne quello tradizionale, è vietato.
Gli Arian, così si chiama il gruppo, sono composti da nove elementi, violini, chitarre e batteria. la prima volta dalla rivoluzione che a una ragazza, la bella Sharoreh Farnejad è permesso suonare la chitarra e cantare allo stesso tempo di fronte ad un pubblico. Vestita alla moda nonostante le restrizioni di abbigliamento, appena può si toglie il velo di marca e lo piega con delicatezza. Unghie curatissime, trucco fine, capelli da parrucchiere, Sharoreh racconta la fatica di essere una donna in un complesso musicale: «Ci hanno esaminato, ci hanno ascoltato, hanno vagliato ogni parola delle nostre canzoni, al primo concerto non volevano che mi esibissi ma abbiamo insistito, non ci siamo mai persi d’animo e abbiamo vinto. Certo non mi permetterebbero mai di cantare da sola, ma va bene anche così».
Un linguaggio semplice che rapisce i giovani, parla di amore, spesso figurato, molto leggero, all’inizio perfino bucolico per non incappare nel marchio di «indecente» che in un attimo avrebbe bloccato la loro carriera. «E’ stato un passaggio graduale, abbiamo parlato di amore per i genitori, per la patria, prima di arrivare a quello tra un ragazzo e una ragazza», spiega Ninef Amir Khas, chitarrista e compositore. Nati nel 1999 quando i due cantanti principali si sono conosciuti al militare e hanno deciso di mettere insieme le loro esperienze, ognuno aveva qualche familiare che suonava e in un batter d’occhio sono nati gli Arian. Non sanno che in Occidente la parola «ariano», spesso associata al nazismo e alla discriminazione razziale, non è molto ben vista. Ma «Iran» deriva da quelle tribù germaniche di Ariani stanziati in origine sull’altopiano persiano. Oggi rappresenta il desiderio di far parte di un’élite, forte è la loro rivendicazione ad appartenere al mondo indeuropeo, spesso confusi con gli arabi, che guardano un po’ dall’alto al basso.
Dall’altra parte della città, nella zona meno bene, Sorang Arjang e suo fratello neanche li conoscono gli Arian. Anche loro sono musicisti, lei è una famosissima cantante classica, lui a 24 anni è considerato un genio compositore. A 15 ha scritto la sua prima opera riconosciuta da tutti i grandi artisti tradizionali iraniani. Poi ha smesso di suonare, perché a sua sorella voce solista hanno impedito di cantare, così come a sua madre che cantava ai tempi dello scià. Voci imbavagliate, se vogliono incidere un disco devono andare all’estero. Arjang si siede con il suo tar, uno strumento a corda, chiude gli occhi e riempie la stanza di una musica calda senza tempo. «L’ho appena inventata per te», dice mentre madre e sorella applaudono. «Noi siamo mistici, la musica ci allontana da questo mondo, dalle questioni politiche, e fino a quando non potremo tornare a cantare e suonare per gli altri, resteremo nel nostro guscio. Con la nostra musica dentro», dice Sorang che ha 26 anni, ma canta da quando ne aveva quattro.
«Non ho mai conosciuto altro nella vita, solo la musica, i miei genitori mi hanno cresciuto così», spiega il giovane Arjang dagli occhi tristi. «E’ una condanna a vita. Un amore doloroso che non mi lascia mai e del quale non posso fare a meno. E’ un suono che mi sbatte nella testa. Ogni volta che scrivo una composizione credo sia l’ultima, di essermi liberato. Bisogna capire il motivo per cui si suona, alcuni lo fanno per soldi, per piacere, o per amore. Vanno tutti bene. Io suono per vivere. Perché l’aria che respiro è fatta di note», dice Arjang, che ogni giorno riempie spartiti che non sa quando potrà suonare davanti ad un pubblico. Le autorità iraniane hanno deciso di lanciare una campagna contro la musica rap, che si è diffusa rapidamente negli ultimi anni tra i giovani attraverso dischi clandestini e via Internet e che rischia, afferma il governo di Teheran, di «diffondere l’immoralità nella società». «Non ci sarebbero problemi per la musica, ma a causa delle parole oscene usate dai cantanti, il genere è dichiarato illegale», ha spiegato Mohammad Dashtgoli, capo del consiglio per la supervisione e la valutazione delle attività musicali che fa capo al ministero della Cultura e orientamento islamico. «Un gran numero di cantanti rap non autorizzati è già stato identificato - ha aggiunto Dashtgoli - e ora, in coordinamento con la polizia, saranno chiusi gli studi dove viene prodotta questa musica e agiremo nei confronti dei cantanti». Come, non è stato precisato. Lo stesso responsabile governativo ha tuttavia ammesso che l’impresa non sarà semplice, perché gran parte di questa musica, nei cui testi vengono affrontati apertamente anche temi politici e sociali, viene diffusa attraverso canali underground e siti Internet.