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 2007  dicembre 01 Sabato calendario

ROMA – Quando Romano Prodi l’ha raccontato all’assemblea degli artigiani, sono scoppiati a ridere come se fosse una barzelletta

ROMA – Quando Romano Prodi l’ha raccontato all’assemblea degli artigiani, sono scoppiati a ridere come se fosse una barzelletta. Durante una riunione sull’assenteismo dei dipendenti pubblici, (uno scandalo «che tocca punte del 30%», ha detto), il premier si sarebbe sentito fare da qualcuno (un sindacalista?) la seguente proposta: «Diamo un premio di presenza a chi va a lavorare». Esterrefatto, Prodi ha sussurrato: «Se il salario non è il premio di presenza, io non so cosa dire...». Ma come avrebbe reagito se avesse saputo che quel premio per la presenza esiste già? E non da oggi, bensì dal 1995? Il premio per chi semplicemente si presenta al lavoro è occultato abilmente nel contratto nazionale dei ministeri sotto la misteriosa sigla Fua, Fondo unico di amministrazione. Si tratta di soldi che, attraverso la contrattazione integrativa, vengono formalmente destinati a premiare la «produttività» dei lavoratori, ma che di fatto si risolvono in un aumento in busta paga per il solo fatto di timbrare il cartellino. Volete sapere qual è il motivo? Se un dipendente pubblico non è presente, non produce. E le pratiche rimangono lì. Quindi, il premio alla presenza è considerato un premio, appunto, alla «produttività». Questo criterio kafkiano è ratificato nei contratti dei ministeri. Prendiamo l’integrativo del Tesoro: il 70% delle risorse destinate alla produttività (circa due mensilità aggiuntive) viene assegnato in base alla presenza. E l’accordo sul Fua 2007-2008 per il personale del ministero del Lavoro, sottoscritto dopo il famoso Memorandum sul pubblico impiego tra governo e sindacato che avrebbe l’obiettivo di promuovere la retribuzione variabile e quindi anche il merito, si autodefinisce «fortemente innovativo» perché riduce la percentuale destinata a «premiare» la semplice presenza in ufficio, che fino al 2006 poteva raggiungere il 70%, a un più «modesto» 40% nel 2007, per scendere ancora al 30% nel 2008. Senza contare che resta, in tutti questi accordi, la cattiva abitudine di considerare «presente» anche chi è in permesso sindacale. Ma in una pubblica amministrazione come la nostra, dove «merito» è una parola sconosciuta, ci starebbe pure: se esistesse però un modo efficace di controllare chi va davvero a lavorare. Perché non c’è neppure quello. I tornelli per entrare e uscire dall’ufficio con tesserino magnetico, in grado anche di misurare l’orario di lavoro, dovevano essere installati per decreto dal 1986. Ma non successe praticamente nulla. Finché nel ’93 un ministro della Funzione pubblica autorevole come Sabino Cassese, rivelò sconcertato che perfino nel suo ministero, i tornelli, benché impiantati, non funzionavano. Anche la sua clamorosa denuncia cadde nel vuoto. A 14 anni di distanza la situazione è sempre la stessa: nel ministero che dovrebbe dare l’esempio, i dipendenti, dopo essere entrati, possono tranquillamente uscire senza strisciare nuovamente il tesserino magnetico. Così come nulla vieta a un impiegato di timbrare il cartellino di uno o più colleghi che magari quel giorno in ufficio non ci metteranno proprio piede. Se può accadere a Palazzo Vidoni, figuratevi nel resto degli uffici pubblici. Come stupirsi, allora, che l’assenteismo «reale» della pubblica amministrazione, al netto cioè delle ferie, degli scioperi e delle assenze non retribuite, raggiunga 40 giorni lavorativi l’anno in media (è il caso delle dipendenti degli enti pubblici)? E che persino a Palazzo Chigi, cuore del governo, ogni dipendente si assenti dal lavoro mediamente per 26,3 giorni, con una punta di 33,1 giorni per le donne? L’assenteismo femminile è poi un fenomeno nel fenomeno, toccando livelli pari al doppio se non al triplo di quello maschile. Non che in periferia le cose procedano meglio. Lo scorso aprile, a Giugliano, il terzo comune della Campania, è scoppiata una violenta polemica perché il sindaco, Francesco Taglialatela, voleva combattere l’assenteismo introducendo un badge magnetico con l’impronta digitale. Invece il primo cittadino di Capo d’Orlando, in Sicilia, ci ha provato con le buone, mandando una lettera ai dipendenti comunali dove ironicamente si diceva «preoccupato della salute cagionevole » di molti di loro. E che dire delle aziende statali? Nel 2005 l’amministratore delegato dell’Alitalia, Giancarlo Cimoli, denunciò che per colpa degli assenteisti l’azienda era costretta a «pagare mille assistenti di volo in più». E sempre tre anni fa una sentenza a Milano mandò assolti 62 uomini radar che si assentavano abitualmente per andare a giocare a calcetto con l’incredibile motivazione che «l’esistenza della prassi era ben nota ai loro dirigenti». Certo, i dirigenti dovrebbero controllare. Anche se c’è una battuta che circola tra loro: «Il Tua fa bene». «Tua» sta per «Tasso utile di assenteismo». E sì, perché «a volte è meglio che alcuni di loro stiano a casa, piuttosto che venire a creare confusione in ufficio», spiega un alto dirigente che ha girato parecchi ministeri e che vuole comprensibilmente mantenere l’anonimato. In teoria il dirigente potrebbe valutare individualmente i propri sottoposti e, nel caso, prendere provvedimenti disciplinari. Ma gli ostacoli sono infiniti. Per esempio: se nella bacheca dell’ufficio non è affisso il codice disciplinare, e spesso non c’è, l’eventuale sanzione verrà sicuramente annullata in sede di ricorso. Oppure: se un dirigente valuta negativamente un sottoposto, deve aprire su questo un contraddittorio col sindacato. Nonostante il Memorandum sul pubblico impiego sia stato presentato come una svolta epocale, il sindacato continua a farla da padrone. Prova ne sia il fatto che i dirigenti devono «confrontarsi» costantemente con i sindacati, anche sulle loro funzioni. Nessuna meraviglia dunque che nei contratti integrativi dei ministeri, come nello stesso Memorandum, si trovino formulazioni di vera e propria cogestione: i dirigenti devono concordare con i sindacati i loro piani operativi, e «le modalità per la misurazione, verifica e incentivazione dei risultati». Detto questo, i dirigenti non sono esenti da colpe. Non a caso ogni contratto prevede promozioni di schiere di dipendenti al ruolo dirigenziale. Perfino il Memorandum ammette che il loro numero va ridotto «eliminando ogni progressione automatica » di carriera. Un escamotage, come anche il premio alla presenza, per gonfiare gli stipendi. Col risultato che le retribuzioni lorde pro-capite nel pubblico impiego sono aumentate del 28,6% nel periodo 2000-2006: 13,5 punti in più dell’inflazione.