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 2007  novembre 30 Venerdì calendario

DUE ARTICOLI TRATTI DAL CDS DEL 30/11/2007


Il Protocollo di Kyoto ha dieci anni, ma ne dimostra molti di più, al punto che si pensa di mandarlo in pensione e sostituirlo con un accordo condiviso, su cui riescano a mettersi d’accordo i tre maggiori «separati in casa» del clima: l’Europa, che lo sostiene e tenta faticosamente di applicarlo; gli Stati Uniti, che lo avversano come inutile e dannoso; i Paesi in via di rapido sviluppo, cioè Cina e India, che lo vedono come un limite alla crescita.
Concepito nel dicembre 1997, il Protocollo avrebbe dovuto guarire la Terra dalla sua febbre, riducendo i gas serra emessi da centrali, industrie e trasporti, ma la sua applicazione è stata rifiutata da alcuni governi e ha creato notevoli difficoltà ad altri. In pratica, oggi più di mezzo mondo lo ignora. Ora, si presenta un appuntamento che potrebbe portare alla sua riformulazione, in vista della sua scadenza del 2012: la tredicesima conferenza internazionale sui cambiamenti climatici, che si svolgerà a Bali dal 3 al 14 dicembre, in un Paese, l’Indonesia, che rappresenta un nervo scoperto del cambiamento climatico, dove siccità e inondazioni stanno aumentando di frequenza.
La partita di Bali lascia prevedere l’ennesimo scontro fra sostenitori e detrattori del Protocollo, a conclusione di un anno in cui il clima è stato costantemente alla ribalta. C’è stata la martellante successione dei rapporti Ipcc (il gruppo di scienziati del clima al servizio delle Nazioni Unite): valanghe di prove che indicano l’uomo come il principale responsabile del riscaldamento. Poi, il Nobel per la Pace agli scienziati dell’Ipcc e al maggior divulgatore delle loro tesi, l’ex vicepresidente americano Al Gore. L’mpio consenso non ha allentato la tenacia degli oppositori; e neppure le difficoltà di chi, l’Italia in testa, pur dichiarando la sua fedeltà al Protocollo, non riesce a rispettare gli obblighi di riduzione dei gas serra.
Gli Stati Uniti si presentano a Bali con la solita squadra di funzionari della Casa Bianca convinti della perniciosità del patto. Al meccanismo di Kyoto che prevede sanzioni per gli inadempienti, l’amministrazione Bush contrappone progetti di collaborazione internazionale su base volontaria, per lo sviluppo di tecnologie "carbon free": rinnovabili, idrogeno, nucleare di quarta generazione e stoccaggio dell’anidride carbonica sottoterra.
L’Europa, capofila dei pro Kyoto, ha presentato in questi giorni un bilancio ottimistico sulla possibilità di rispettare le scadenze di riduzione. Ma, a guardare le tabelle della Commissione europea, solo Germania, Gran Bretagna e Svezia stanno marciando a pieno ritmo con i tagli dei gas serra, mentre la maggior parte dei 15 arranca penosamente. L’Italia doveva ridurre del 6,5% e si trova con un aumento del 13%. Spagna, Portogallo e Grecia hanno gonfiato le proprie emissioni di gas serra fino al 3040%. Sul fronte dei Paesi in via di sviluppo, Cina e India stanno eguagliando Europa e Usa quanto a emissioni di gas serra e tuttavia sono arroccate sul rifiuto di obblighi e scadenze perentorie. Su queste basi, sperare che da Bali possa uscire un accordo per il rilancio del protocollo di Kyoto, oltre la sua scadenza del 2012, è utopistico, ma la diplomazia internazionale, a partire dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon, è convinta che il miracolo sia possibile. Anche la scienza del dubbio invoca la sua parte. «Che l’uomo sia il principale responsabile è possibile – osserva il presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) Enzo Boschi ”. Ma ancora dobbiamo valutare alcuni contributi naturali trascurati dall’Ipcc, come le emissioni geologiche di gas serra e il flusso di calore dall’interno della Terra. E’ quanto stiamo facendo all’Ingv con ricerche che presto presenteremo». Per il resto, Boschi non rinnega il principio di precauzione: «Il Protocollo di Kyoto sarebbe più accettabile se i suoi meccanismi fossero semplificati: maggiore efficienza e risparmio energetico, una ricetta che fa bene sia all’ambiente sia alla crisi energetica e che nessuno può rifiutare ».


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PECHINO – La domanda condiziona il nostro futuro: chi contribuisce di più ai cambiamenti climatici inquinando l’aria con l’anidride carbonica e prospetta così alle giovani generazioni una vita più difficile? I dati hanno mille chiavi di lettura.
Una è quella di guardare ai volumi globali di CO2 immessi nell’atmosfera e allora il primato negativo spetta alla Cina che dal 2007, secondo gli scienziati del Netherlands Environment Assessment Agency, ha superato gli Stati Uniti: 6,2 miliardi di tonnellate di CO2 scaricati nel cielo contro i 5,8. Per la Cina più 8% sul 2006, per gli Usa meno 1,4%.
A fare schizzare i valori è la fame di energia del colosso asiatico. I suoi consumi energetici (fonte: Banca Mondiale) dal 2000 al 2005 si sono alzati del 70%, in particolare i consumi di carbone sono saliti addirittura del 75%. Nel 2006 (fonte: l’istituto di statistica cinese) un altro incremento del 9,61% sull’anno precedente. Complessivamente la Cina mangia e brucia 2,46 miliardi di tonnellate di carbone. Il quadro si completa prendendo in esame altre cifre: nei cinque anni che vanno dal 2000 al 2005 (Banca Mondiale) le emissioni di SO2, anidride solforosa, si sono impennate del 42%, e nel 2006 (ufficio statistico cinese) hanno subito un ulteriore balzo in avanti dell’1,8%.
La conseguenza è che 16 fra le 20 città più inquinate del pianeta sono in Cina, che la concentrazione media di polveri sottili è doppia rispetto all’Europa e agli Stati Uniti (Banca Mondiale), che il 54% delle acque dei sette maggiori fiumi è chimicamente pericoloso per l’uomo, che le piogge acide determinano danni alle coltivazioni per tre miliardi di euro all’anno, che l’inquinamento costa alla Cina una percentuale fra il 3 e il 4% del suo prodotto lordo. Il governo l’ha quantificata in 50 miliardi di euro per le ricadute sulla salute e per le giornate di lavoro perso.
Scenario già grave reso drammatico dalla programmata entrata in funzione, entro il 2015, di 550 nuove centrali termoelettriche. Che cosa accadrà ai cieli della Cina e del mondo?
La seconda chiave di lettura è quella che prende in considerazione le emissioni pro capite di CO2 e in questo caso tocca agli Stati Uniti stare davanti, seguiti da Canada, Russia, Gran Bretagna, Francia. La Cina è sesta. Tutti, dal 1990 al 2004 (fonte: Nazioni Unite) hanno aumentato le quote di inquinamento individuale. Da qui il buon gioco per Pechino che accusa: il problema non siamo noi, il problema sono i Paesi che dovevano tagliare i gas serra e non ci sono riusciti.
Per parte nostra, annuncia Pechino col suo piano quinquennale 2006-2011, intendiamo ridurre del 10% gli scarichi nocivi. Rispetto al passato la Cina ha una consapevolezza ambientale maggiore che fa però i conti con la necessità di tenere alti i ritmi dello sviluppo e di dare così «pari opportunità» a un mi-liardo e 300 milioni di persone. Deve ora scegliere se essere un po’ più verde e un po’ meno rossa.
Comunque la si ponga – che si guardi ai volumi globali o a quelli pro capite – alla fine una considerazione è fondata: ogni Paese rimanda al vicino la responsabilità del disastro ambientale che si sta compiendo. E così prevalgono gli interessi nazionali. Gli Stati Uniti, locomotiva dell’economia mondiale, puntano l’indice sui mercati emergenti, Cina e India in testa, i quali pompano la crescita senza dare ad essa una prospettiva di equilibrio e la rendono coi suoi numeri vertiginosi, sulla lunga, insostenibile per il pianeta e il genere umano.
Viceversa le economie emergenti accusano i «ricchi» di avere assestato il colpo mortale all’ambiente e di volere sfuggire alle loro responsabilità: l’avere creato le condizioni per il soffocamento della Terra. Un avvitamento che ha l’effetto paradossale di bloccare l’accordo fra chi ha raggiunto il benessere e chi lo cerca. La superpotenza americana e le giovani potenze dell’Asia si ritrovano alla fine dalla stessa parte: l’immobilismo è meglio di qualsiasi vincolo ai modelli di sviluppo locali che sarebbe utile imporre per frenare il surriscaldamento globale. Gli Stati Uniti non tagliano finché non tagliano la Cina e l’India che, a loro volta, rimandano la palla ai «ricchi». «Che compiano il primo passo». Pechino lo ha detto e ripetuto proprio in questi giorni. Titoli sui giornali. Dichiarazioni dei ministri.
La conferenza mondiale che si apre a Bali il 3 dicembre cercherà di avviare le procedure per un’intesa sul «dopo Kyoto». certo: la partenza avviene ancora in contesto da muro contro muro. Alibi contro alibi: l’alibi cinese (e indiano) contro l’alibi americano (e dei ricchi).
Fabio Cavalera