Mario Tozzi, La Stampa 29/11/2007, 29 novembre 2007
Pare prossimo il momento in cui per 159 litri di petrolio - un barile - pagheremo 100 dollari. E potrebbe segnare la fine di un’era senza che sia finito il petrolio
Pare prossimo il momento in cui per 159 litri di petrolio - un barile - pagheremo 100 dollari. E potrebbe segnare la fine di un’era senza che sia finito il petrolio. Ma si tratta di una fase contingente, come il famigerato «embargo», o di una strutturale? Visto che oltre il 70% del petrolio statunitense viene utilizzato per autotrazione - il 43% dell’intero serbatoio di carburante mondiale - e visto che ogni anno al mondo ci sono 50 milioni di veicoli in più, conviene partire da qui. Quando giriamo la chiavetta di accensione di un’auto non stiamo solo mettendo in moto. Dal punto di vista energetico, bruciare benzina per far andare un’auto è un po’ come dare fuoco a mazzette di banconote da 100 euro per riscaldarsi: funziona, ma forse c’è un modo migliore di usare quel patrimonio. Gli uomini hanno dilapidato un patrimonio energetico che avrebbe potuto avere una destinazione migliore. Basta confrontare il parco vetture Usa del 2003 con quello del 1981 per scoprire che, se il primo avesse avuto le stesse prestazioni del secondo, si sarebbe risparmiato un terzo nei consumi, assecondando quell’andamento virtuoso per cui - dopo la crisi petrolifera degli Anni 70 - un’auto media percorreva oltre 10 km con un litro contro i 6 del periodo precedente. Il problema sta nell’inefficienza delle automobili: di tutta l’energia liberata dalla combustione solo il 13% si trasforma effettivamente in trazione. Nei Paesi emergenti le cose non vanno meglio, anzi. Se nel 1990 in Cina c’era un’auto e mezza ogni 1000 persone, nel 2010 il governo prevede che ce ne saranno 17, circa 23 milioni di auto contro gli 8 milioni di oggi (altri prevedono quasi 50 milioni di veicoli). Ciò comporta un vantaggio per i cinesi, che potranno abbandonare la bicicletta, ma alcuni disastri ambientali. Si dovranno asfaltare almeno 150.000 kmq per fare strade e parcheggi, sottraendo all’agricoltura un territorio grande come metà delle attuali risaie. L’inquinamento atmosferico diventerà inarrestabile, visto che la motorizzazione della Cina avviene attraverso modelli inquinanti. Non si rispettano parametri ambientali moderni. Così la Cina ha un nuovo parco auto di fatto già vecchio, visto che anche le aziende straniere hanno esportato tecnologie obsolete per stare al passo con lo scarso potere d’acquisto del ceto medio. «Prima cresci, poi pulisci», uno slogan micidiale per l’ambiente, perché si rischia di non avere più granché da pulire. E intanto le riserve di petrolio si sono talmente vicine al picco della produzione da verificare - prospettandosi la quota 100 dollari al barile - la legge per cui le riserve di una qualsiasi materia prima costano molto di più e sono molto più difficili da ottenere una volta che si è superata la metà della quantità totale a disposizione. Si prevedeva il raggiungimento del picco entro il 2015, più probabilmente nel 2011, ma potremmo averlo già superato e non essercene accorti. In questo caso lo sfondamento di quota 100 dollari sarebbe di natura strutturale e non contingente e dipenderebbe poco dalle politiche economiche. Insomma, un conto è il petrolio a buon mercato, quello sfruttato fino a oggi che ha permesso guadagni immensi e ha comportato costi contenuti, un altro è quello teoricamente disponibile, che non può essere messo nel conto complessivo delle riserve. Infine tutto l’insieme di pozzi, oleodotti, raffinerie, centrali termoelettriche e linee di trasmissione assomma a circa 10.000 miliardi di dollari, che nessuna società potrà ammortizzare se non prima di una trentina di anni. Dunque, nessuna meraviglia se le corporation vogliono sfruttare il petrolio fino all’ultima goccia, rallentandone un’inevitabile sostituzione. Forse, però, è ora di finirla di pensare che un prezzo così elevato sia un problema: magari, invece, avvicina la soluzione.