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 2007  novembre 29 Giovedì calendario

Ah!, questo Spoon River. Ce l’ho nel cuore da tanti anni che non ricordo neanche quanti sono. Ero poco più che una bambina, diciamo un’adolescente, quando Cesare Pavese, il destino lo ringrazi per tutto quello che ha fatto per me, per noi, mi ha dato questo libro dicendomi: «Sono sicuro che lei capirà cosa vuol dire»

Ah!, questo Spoon River. Ce l’ho nel cuore da tanti anni che non ricordo neanche quanti sono. Ero poco più che una bambina, diciamo un’adolescente, quando Cesare Pavese, il destino lo ringrazi per tutto quello che ha fatto per me, per noi, mi ha dato questo libro dicendomi: «Sono sicuro che lei capirà cosa vuol dire». Come Hannah Josephson quando mi ha dato la prima copia americana ancora bagnata di stampa di On the road di Jack Kerouac dicendomi: «Sono sicura che tu saprai cosa farne».  la fiducia di Cesare Pavese che mi ha fatto andare avanti tutti questi anni. Chi lo sa se questo libro l’ho capito, ma non ho mai smesso di amarlo e di pensare che stava cambiando il pensiero dei ragazzi come me, avviandoli verso il pacifismo, verso la libertà, verso la fiducia nei valori morali che cercava di impadronirsi delle nostre anime minacciate di allora. Era un mondo di illusioni e di gradassate, dove il tono era sempre un po’ troppo alto, un po’ troppo coperto da trombe con l’altissimo, da immagini troppo trionfalistiche di una realtà trasfigurata in un’ansia di potere degenerata spesso in ansietà estranee ai nostri cuori. La storia del libro affidato al mio cuore la sanno tutti. Mi ero innamorata (lo sono ancora) di quel libro che faceva vivere passioni dimenticate o soffocate, l’amore, la speranza, la fiducia, il senso (il vero senso) della vita. E le passioni le riproponeva in moduli sopravvissuti ai sacrifici imposti dalle nuove leggi morali, moduli che ora sembrano inafferrabili, ma erano ancora più inafferrabili allora. Allora, senza saperlo, ha cambiato la mia vita e di innumerevoli ragazzi che si sono innamorati del libro quasi come me. Dell’autore, Edgar Lee Masters, non si sapeva niente, neanche lo stesso Cesare Pavese: per noi era il libro dell’autore e basta. In quegli anni terribili non potevamo conoscere la vita degli autori americani, non si sa mai, e in fondo veniva fuori che era un modo come un altro di legarci di più ad autori misteriosi che mostravano un esempio di come si può aiutare folle di giovani a cambiare, letteralmente cambiare, le basi ideologiche della vita. Questo ha fatto Spoon River per me, signorina ancora molto ricca e rimasta sempre molto onesta, con genitori meravigliosi e la guida supermeravigliosa del più grande poeta che ha avuto l’Italia in quegli anni di tenebra. La storia di Spoon River più passa il tempo e più mi sembra la mia storia, dove vorrei sottolineare la parola «mia», se le sottolineature usassero ancora: ma non esistono più, esistono vite meravigliosamente trasformate dall’influenza di un uomo, e vicino a Pavese era difficile che non si trasformassero, altro che semplici sottolineature. Ero lì, bella ragazza com’è facile a quindici anni, ricchissima senza saperlo, come usava allora nella nostra alta borghesia antifascista, innamorata di quel mistero imperscrutabile che era la vita, in adorazione di genitori favolosi, sbalordita dalla scoperta di un personaggio indescrivibile come Pavese. In quel momento, quando Pavese mi ha cambiato per sempre la vita facendomi leggere Ernest Hemingway, Sherwood Anderson, Walt Whitman e questo poeta poco più che conosciuto di nome come era ancora Edgar Lee Masters, le voci che mi arrivavano attraverso il mio grande papà (che voleva essere chiamato babbo) e dalla sua favolosa biblioteca (stupidamente donata da me con le mie migliaia di libri a persone che non l’hanno capita) erano quelle vietate di una piccola rivista preziosa che si chiamava «La cultura », forse la prima rivista a presentare Pavese per quello che era, un antifascista perseguitato, e coraggioso esponente di idee supervietate che stavano costruendo il nuovo mondo. Erano idee più precise e definitive di quelle che avevano portato mio padre alla sua rovina, con un futuro che pareva ormai senza luci. E il mondo era così anche per Pavese, e io ero lì, bambina incapace di credere nel mondo che aveva distrutto mio padre e ansiosa di conoscere speranze di un mondo come quello che aveva distrutto Pavese. Non era mica tanto allegro per alcuni di noi ragazzi; e nelle immagini che parevano senza soluzione di Pavese, per noi ragazzi terrorizzati dal futuro comparivano immagini che ci facevano credere ancora nelle realtà inoppugnabili del mondo sommerso. In questo clima Pavese era stato arrestato e portato a quello che allora si chiamava il confino, che più tardi i fascisti hanno chiamato una vacanza dal lavoro, e che consisteva in una vita condotta senza denaro o quasi in un villaggio più o meno disabitato, quello dove era stato chiuso Pavese guidato da un capo di polizia che gli faceva dare lezioni, figurarsi, di latino a sua figlia, e in cambio gli dava abbastanza denaro da potersi comperare un po’ d’uva, che è stato il vitto di Pavese in quel periodo di «vacanza» fascista. La sua vita privata, di intellettuale sconfitto, lo aveva poi riportato a Torino, distruggendo un amore che non aveva potuto realizzarsi. Glielo avevano distrutto due amici di allora, quando Massimo Mila gli aveva detto che la sua fidanzata aveva sposato un altro. Chissà se qualcuno è riuscito a descrivere il disastro nel quale è precipitata la sua anima. Pavese si aggirava nella Biblioteca Nazionale in cerca di libri che lo aiutassero a vivere, ma soprattutto quei libri li riceveva da un amico farmacista di New York, e un giorno mentre passeggiava con Norberto Bobbio (che con Pavese aveva avuto dal professor Monti una supplenza mentre io facevo la prima Liceo al d’Azeglio) mi aveva incontrata, mi aveva chiesto cosa facessi e quando ha sentito che mi stavo laureando su un poeta inglese, nientemeno che Shelley, mi aveva fatto la domanda fatale che mi ha trasformato la vita: «Perché non in letteratura americana? ». L’avevo raccontato alla mamma e così Pavese era entrato in casa mia a darmi vere lezioni su quella vera cultura ormai segregata nei sogni e nei ricordi. Naturalmente gli avevo chiesto che differenza c’era tra le due letterature e lui si era passato la pipa da una parte all’altra della bocca e invece di rispondermi mi aveva lasciato in portineria quattro libri: Addio alle armi di Ernest Hemingway, l’autobiografia di Sherwood Anderson, le poesie di Walt Whitman e questo strano libro di poesie, l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Nelle lezioni che mi dava in casa mi insegnava soprattutto a leggere poesie dei cosiddetti classici cercando di capirli, cioè spiegandomi come interpretare un poeta. incredibile come nelle sue parole questi poeti vivi ormai soltanto nel ricordo di chi li aveva letti o studiati, diventavano vivi per sempre: fra i milioni di cose che devo agli insegnamenti di Pavese forse una delle più importanti era stata sentir rivivere versi definitivi per capire una civiltà più o meno sommersa e che si voleva far sopravvivere. Per me, poco più che bambina, i poeti di Pavese e la loro poesia, fino a quando avevo letto la poesia di Pavese stesso, erano stati un esempio di interpretazione o magari semplicemente di spiegazione di quello che stava succedendo, in una trasformazione politica che voleva cancellare il nostro passato e la nostra realtà in immagini ancora sfumate nelle nostre speranze. Intanto, era cominciato il bel tempo della primavera e le lezioni Pavese me le faceva sulle panchine dei maestosi viali torinesi, e ormai le lezioni consistevano più che altro nel leggere, e questa volta capire, i grandi poeti che a quel tempo si conoscevano soprattutto o soltanto per il loro nome. Quando pioveva stavamo nel mio studio (naturalmente mio fratello e io avevamo uno studio ciascuno nella favolosa casa di mio padre) e mi sembra ancora favoloso il ricordo, la sua ultraterrena capacità di far vivere di quei poeti più le idee che la vita vera. Tra Melville e Hemingway mi faceva leggere i poeti che gli mandava il suo amico farmacista da New York; e mi spiegava, mi spiegava i loro sogni, mi spiegava le loro inafferrabili speranze. Intanto io leggevo quel libretto di poesie di quel povero avvocato di provincia americana, con le sue proposte di un mondo rinato nell’ansia della libertà, dell’indipendenza, dell’amore, della fiducia negli uomini non più visti come nemici ma abbracciati in un comune destino che si sognava ignaro di guerre e ispirato soltanto dalla pace e dalla realtà spirituale degli uomini. Ma fascismo o non fascismo io ero una bambina mica tanto cretina. Forse Pavese si divertiva a sentire che cosa diventavano quei poeti immortali nelle parole di una bambina mica tanto cretina e quello che pensavo e che non osavo dirgli avevo cominciato a scriverlo sui quaderni della Scuola svizzera che avevo ancora sul mio tavolo; e insieme avevo cominciato, senza sapere ancora che esistevano i traduttori, a tradurre senza vocabolario poesie che ormai mi presentavano i problemi di un altro modo di vivere. A incantarmi era stata la poesia di Francis Turner, ve la ricordate? «Io non potevo correre né giocare/ quand’ero ragazzo. /.../ Eppure giaccio qui / blandito da un segreto che solo Mary conosce: / c’è un giardino di acacie, /.../ là, in quel pomeriggio di giugno / al fianco di Mary – / mentre la baciavo con l’anima sulle labbra, / l’anima d’improvviso mi fuggì». Mah! In quel mondo cinico e materialista del tempo l’idea che si potesse ancora morire per un bacio era un’idea a dir poco seducente per una bambina che i baci li aveva soltanto sognati. E questa antologia di questo avvocato di provincia l’aveva letta tutta di seguito, forse, chissà nella nuova ansia di vedere come erano i baci di allora. Ma tutto prevedevo tranne che un giorno Pavese invece di aprire il cassetto dove gli tenevo le sigarette aveva aperto un altro cassetto e lì aveva trovato il mio quaderno e lo aveva preso e lo aveva letto e poi mi aveva guardato con quel suo viso sempre drammatico e mi aveva detto soltanto: «Ah!». Si era messo il quaderno nella borsa e due giorni dopo era tornato col contratto di Giulio Einaudi, il primo che vedessi del migliaio di contratti arrivati dopo e mi aveva detto che voleva leggere quelle poesie via via che le traducevo. Chissà se Pavese si è mai reso conto che in quel momento mi aveva indicato le vie del mio destino, chi lo sa. Però così è stato. Quel suo «Ah!» non me lo sono mai dimenticato.