Paolo Garimberti, la Repubblica 29/11/2007, 29 novembre 2007
LA REPUBBLICA 29/11/2007
ALBERTO D’ARGENIO
BRUXELLES - «Purtroppo le parti non sono riuscite a raggiungere un accordo». Per quanto atteso sin dall´inizio, l´annuncio del fallimento dell´ultimo round negoziale tra serbi e kosovari fa temere il peggio. La località termale di Baden, alle porte di Vienna, non ha portato fortuna ai negoziatori internazionali impegnati nell´ultimo sforzo per arrivare ad una soluzione condivisa sul Kosovo, la provincia della Serbia a maggioranza albanese sotto tutela dell´Onu dal 1999. Ora «la pace è in bilico», ha avvertito il rappresentante degli Stati Uniti Frank Wisner.
Intanto a Bruxelles la Nato, che in Kosovo ha 16 mila soldati, sta limando i piani per fronteggiare eventuali scontri tra kosovari e serbi nel caso in cui Pristina decidesse di staccarsi unilateralmente da Belgrado.
Con il fallimento della tre giorni di Baden - ultimo atto di due anni di colloqui tra serbi e kosovari con la mediazione di Ue, Usa e Russia - si chiude la fase dei negoziati diretti. Ora non resta che attendere il 10 dicembre, quando il terzetto presenterà il suo rapporto al segretario generale dell´Onu, Ban Ki-moon. «Abbiamo fatto di tutto, considerando ogni opzione umanamente possibile» per trovare una soluzione, hanno indicato i mediatori. Pristina ha sempre dichiarato l´intenzione di proclamare la propria indipendenza anche senza accordo. Uno scenario rifiutato da Belgrado, al massimo pronta a concedere ulteriori autonomie. E ieri i serbi, per bocca del presidente Boris Tadic, sono tornati a chiedere un allungamento dei negoziati - ipotesi respinta da Usa e Ue - e hanno ribadito che rifiuteranno qualsiasi ipotesi di secessione.
A questo punto sembra inevitabile che la spaccatura si riproduca in seno al Consiglio di sicurezza dell´Onu, dove americani ed europei appoggiano l´indipendentismo di Pristina contrastati però dai russi, pronti a mettere il veto contro qualsiasi decisione in questa direzione. La situazione è «molto allarmante», ha tuonato da Mosca il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov, sottolineando che il Cremlino non accetta l´assunto dell´Occidente secondo cui l´indipendenza del Kosovo è inevitabile. Dietro l´angolo incombe infatti la violenza, anche se ieri le parti hanno garantito che faranno di tutto per non fare precipitare la situazione. Ma dopo i 10 mila civili uccisi dai serbi nella guerra del 1998, e con la memoria ai morti degli scontri del 2004, è lecito temere il peggio. Soprattutto se Pristina, come sembra inevitabile, tra dicembre e gennaio si proclamerà indipendente forte dell´appoggio di Washington e delle capitali europee. In quel caso gli eventuali, e probabili, scontri tra l´etnia albanese e la minoranza serba, il 10% dei 2 milioni di kosovari, dovranno essere sedati dalla Nato. Che, ha avvertito ieri il comandante delle forze europee John Craddock, sarà in condizione di agire solo se non le sarà tolto l´attuale mandato dell´Onu.
GIAMPAOLO CADALANU
DAL NOSTRO INVIATO
TIRANA - Dopo il fallimento delle trattative con la Serbia, in Albania c´è forte preoccupazione per il futuro del Kosovo. Primo ministro Berisha, perché sono falliti i negoziati?
«Sfortunatamente questo era l´esito previsto. Sia i serbi che i kosovari erano chiari nella loro posizione di rifiuto del piano Ahtisaari. Ma ci sono comunque due risultati positivi: l´impegno della Serbia a non usare la forza, e la proposta kosovara di un trattato di buone relazioni, che crei un clima di collaborazione, di stabilità e di pace, aprendo la via a una prospettiva di integrazione europea per tutti e due i paesi».
Ma che cosa succederà adesso a Pristina?
«Il nuovo Parlamento e il nuovo governo kosovari hanno il dovere di collaborare con la comunità internazionale per definire la questione dello status del Kosovo nei tempi più rapidi possibile. Naturalmente ho fiducia che la scadenza del 10 dicembre, quando finirà il periodo dei negoziati, non significherà la dichiarazione unilaterale dell´indipendenza da parte delle autorità di Pristina. D´altro lato però la fine del mandato della troika senza risultati testimonia che la Serbia non accetta di rinunciare alla sua posizione coloniale con il Kosovo, appena otto anni dopo averne riempito i cimiteri, dopo aver deportato oltre un milione di albanesi, scioccando le coscienze occidentali, dopo aver costretto la Nato alla più grande campagna aerea dalla fine della II guerra mondiale in difesa dei diritti e delle libertà degli albanesi del Kosovo».
Come giudica la posizione di Belgrado?
«La Serbia oggi recita la parte della vittima e cerca di mantenere il Kosovo sotto la sua sovranità. In questo modo impone ai kosovari la via del riconoscimento bilaterale dell´indipendenza come unica soluzione praticabile per la crisi balcanica».
La comunità internazionale nutre preoccupazioni sulle altre minoranze albanesi, in Serbia o in Macedonia: che faranno dopo aver visto l´indipendenza del Kosovo?
«Non ci saranno altre rivendicazioni, perché l´indipendenza del Kosovo farà cessare la fluidità albanese e consolidare la stabilità dell´intera regione, garantendo anche le frontiere dei paesi vicini».
Insomma, lei non sogna la Grande Albania?
«La nostra massima ambizione è l´indipendenza del Kosovo. Dopo l´89, quando è caduto il Muro di Berlino, i tedeschi dell´est si sono riversati a Ovest. Quando è caduto il «muro del Kosovo», un milione di kosovari sono venuti in Albania. Sono tornati a casa dopo solo una settimana. Pensano solo all´indipendenza del loro paese. L´idea di una Grande Albania è del tutto senza fondamento».
PAOLO GARIMBERTI
Il fallimento del negoziato sul Kosovo era annunciato da mesi. Prima ancora che la trattativa finisse nelle secche di una pace impossibile tra serbi e kosovari albanesi, era stata la «trojka» mediatrice a implodere. Perché era espressione di tre anime diverse e inconciliabili: l´anima filo-albanese degli Stati Uniti, quella filo-serba della Russia e l´anima al solito incerta e divisa dell´Europa.
Dove troppi Paesi, anche se non osano dirlo apertamente, boicottano l´indipendenza del Kosovo. O perché sono succubi della Serbia per ragioni di interessi economici e di buon vicinato, o perché temono l´effetto domino al loro stesso interno (vedi Spagna, Grecia o Cipro) prima ancora che nei Balcani. Dove invece il terremoto che partirà da Pristina potrebbe essere devastante fino a portare alla quarta guerra interetnica in meno di vent´anni.
Lo scenario è apocalittico. La Serbia, appoggiata dalla Russia, direbbe no all´indipendenza e in Kosovo comincerebbe la caccia al serbo da parte della maggioranza albanese, senza il cuscinetto delle forze di interposizione della Nato: una pulizia etnica eguale e contraria a quella che fu interrotta nel 1999 dai cacciabombardieri dell´Alleanza atlantica. Il nord della provincia, abitato quasi esclusivamente da serbi, cercherebbe di secedere per unirsi alla Serbia e il governo di Pristina si opporrebbe con le armi più ancora che con la politica. Le milizie paramilitari di Belgrado accorrerebbero in soccorso dei serbi, come accadde in Bosnia negli Anni 90. E la Bosnia serba, la Srpska, regno incontrastato dei ricercati Karadzic e Mladic, l´ideatore e il braccio armato delle pulizia etnica, proclamerebbe a sua volta l´indipendenza per diventare provincia della Serbia. Il leader musulmano bosniaco Silajdzic ha già chiesto che la Srpska sia abolita, quello serbo-bosniaco Dodik minaccia il distacco: tamburi di guerra per ora lontana, ma la fiorente Sarajevo degli anni 2000 trema di nuovo, pensando a quello che era negli anni 90, un cumulo di macerie. Per questo l´attendismo europeo (che chiede a Pristina una «indipendenza coordinata») di fronte al rischio di una simile catastrofe è una visione miope, che peraltro ha radici nella Storia e nella tradizione politico-diplomatica del nostro continente. Lo ricorda benissimo Misha Glenny, nel suo monumentale saggio "The Balkans, 1804-1999": « un solido convincimento che i Balcani sono una tossina che da sempre minaccia la salute dell´Europa. Ma tutti pensano che la composizione di questa tossina sia troppo complessa per trovare un antidoto. In mancanza di cure appropriate, l´Occidente ha pensato che l´unica soluzione fosse di isolare i Balcani e dimenticarsene». Fino a quando è stato troppo tardi, ed è successo più volte dalla guerra fredda in poi.
Ora questa tossina sta nuovamente entrando in circolo nel debole corpaccione dell´Europa allargata a 27 e quindi sempre più incapace a trovare cure comuni. E, invece, saranno proprio gli europei a doversi sobbarcare i rischi e il peso di quello che accadrà dopo il 10 dicembre, quando l´ormai inutile «trojka» verbalizzerà alle Nazioni Unite il proprio insuccesso e, a stretto giro, gli albanesi del Kosovo si proclameranno unilateralmente uno Stato: il 23mo nato dal crollo del Muro di Berlino e la fine formale della guerra fredda.
Intanto perché in teoria sarà l´Europa a dover garantire la sicurezza, con un corpo di polizia previsto di 1400 uomini. Oggi ce ne sono 16mila della Nato a dividere la maggioranza albanese dalla minoranza serba. Ma quando, nel 2004, ci fu un rigurgito di pulizia etnica, che portò alla morte di 19 persone, perfino gli addestrati militari della missione Kfor fecero molta fatica a contenere le violenze. Ora quello che accadde tre anni fa potrebbe ripetersi su scala molto maggiore, non solo a Mitrovica, che è sempre stato il confine caldo guardato dai legionari francesi, ma anche altrove, compresa l´area di competenza del contingente italiano. Il mandato della Nato si basa sull´autorità conferita dalle Nazioni Unite con la risoluzione 1244. Il comandante dell´Alleanza, il generale americano John Craddock, lo ha detto con molta chiarezza ieri: noi i piani per contenere i danni li abbiamo, ma solo se si manterrà l´autorità dell´Onu.
tutt´altro che certa che la 1244 resti in vita se Pristina si proclama Stato indipendente. Il problema sicurezza si sposa con quello politico, che egualmente interpella soprattutto l´Europa. Gli americani sono mentalmente e militarmente assenti: in Bosnia hanno lasciato 40 soldati. I russi usano i Balcani come l´ennesimo grimaldello per scardinare le certezze europee e affermare le ambizioni di Mosca di essere di nuovo una superpotenza politica e nucleare (non dimentichiamolo: possiede ancora circa 15mila testate) oltre che una superpotenza energetica.
L´effetto domino significa, appunto, che se il Kosovo si autoproclama indipendente, con la complicità di Washington, l´Europa dovrà gestire la possibile secessione della parte nord della regione, a maggioranza serba, e la valanga della Repubblica serbo-bosniaca, la cui autonomia è oggi «il nostro massimo obiettivo politico» nel linguaggio infiammato del premier serbo Vojslav Kostunica. Addio alla cattura dei criminali Karadzic e Mladic, disperatamente cercata da Carla Del Ponte come procuratore capo del Tribunale dell´Aja per la Jugoslavia. Ma soprattutto addio al sogno di una Bosnia nuovamente multietnica, che pure negli ultimi tre anni aveva registrato non pochi progressi (non c´è stato alcun incidente serio tra serbi, croati e musulmani) grazie anche a un promettente sviluppo economico, che le sta aprendo la strada verso un accordo di associazione con la Ue.
Richard Holbrooke, che è stato l´architetto degli accordi di Dayton sulla Bosnia al tempo della presidenza Clinton, e che ora viene indicato come il possibile segretario di Stato (o consigliere per la sicurezza nazionale) se Hillary andasse alla Casa Bianca, considera altissimo il rischio di una nuova deflagrazione dei Balcani. Lo ha detto due settimane fa a Berlino in una conferenza dell´American Council e del Consiglio per le relazioni Italia-Stati Uniti. Altro che Iraq o Iran. La priorità di un nuovo presidente americano potrebbe essere di nuovo Sarajevo, o Pristina: parola di Holbrooke. E sarebbe davvero paradossale se Hillary dovesse cominciare là dove suo marito concluse la più importante operazione di politica estera dei suoi otto anni di presidenza: la pacificazione forzata dei Balcani con i bombardieri della Nato.