Il Sole 24 Ore 25/11/2007, pag.52 Marinella Guatterini, 25 novembre 2007
Ultimo giro per Béjart. Il Sole 24 ore 25 novembre 2007. Strano, ma non del tutto, che Béjart sia scomparso lasciando in eredità al Béjart Ballet Lausanne un ultimo balletto, Il giro del mondo in 80 minuti, che debutterà a dicembre, facilmente parafrasabile nell’autobiografico «il giro della danza in 80 anni»
Ultimo giro per Béjart. Il Sole 24 ore 25 novembre 2007. Strano, ma non del tutto, che Béjart sia scomparso lasciando in eredità al Béjart Ballet Lausanne un ultimo balletto, Il giro del mondo in 80 minuti, che debutterà a dicembre, facilmente parafrasabile nell’autobiografico «il giro della danza in 80 anni». Uomo di spettacolo, artista totale più che "solo" coreografo, forse aveva previsto tutto. Sentiva la morte vicina negli anni della malattia cardiaca che aveva appesantito il suo corpo e con il sentimento della perdita e della morte – quella Morte subite, titolo di un balletto e di un ennesimo libro – aveva convissuto a lungo sin dai tempi della scomparsa di Jorge Donn, il danzatore prediletto, e di Gianni Versace, il costumista preferito, cui nonostante tutto aveva reso omaggio, nel luglio scorso, alla Scala. Sino agli anni Ottanta il marsigliese Béjart, nato nella città mediterranea il 1º gennaio 1927, non sembrava affatto uomo dai sentimenti affioranti: consapevole di aver già scritto una ventennale pagina senza ritorno della storia del balletto, di essere il coreografo europeo più conosciuto per aver portato la danza nelle arene e negli stadi, non parlava mai di ciò che aveva già creato o vissuto. Immerso nel vortice di un’attività proiettata nel futuro, e nella gestione del leggendario Ballet du XXème Siècle di Bruxelles che nel 1987 avrebbe dismesso per insediarsi a Losanna, folgorava qualsiasi interlocutore con i suoi occhi azzurri, penetranti e unici, con il suono di una voce graffiante e modulata, che sapeva sempre dire qualcosa di inatteso, di sensibilmente arguto sull’amato Oriente, sulle religioni monoteiste o cosmiche, su Nietzsche, tante volte indagato nei suoi balletti e sui miti del Mediterraneo. Fuori del cicaleccio squisitamente ballerino, lui, figlio del filosofo Gaston Berger – appropriatosi del cognome Béjart nel ricordo dei protettori di Molière – riconduceva ogni gesto, ogni scelta, ogni viaggio a un atto di cultura. Eppure, dalla fine degli anni Novanta in poi, la sua attività era diventata un inno alla memoria, e ai ricordi; la sua figura si era ammantata di una fragilità insospettabile. C’era un’infinita tenerezza nel cammeo in video dedicato a Donn in Le presbytère, balletto del ’97 sui morti in giovane età e di Aids, incluso Freddie Mercury; c’era l’ansia di raccontare il mai sopito dolore per la prematura morte di sua madre, quando lui era ancora troppo piccolo per perderla, nell’autobiografico Schiaccianoci del ’98, e qualcosa di orgogliosamente patriottico in Brel e Barbara (2001) che non era affiorato neppure in 1789... et nous. Ma in quel 1989, anno di ricorrenza della Rivoluzione francese, Béjart non era ancora l’ultimo Béjart della commozione. E non era più neppure il primo: lo sperimentatore che negli anni Cinquanta collaborava con Nicolas Schöffer, il precursore dell’arte cibernetica, e usava le sue sculture elettroniche per farne dei balletti pionieristicamente interattivi, l’inventore di coreografie su silenzio e su musica elettronica (Symphonie pour un homme seul), l’esistenzialista di Sonate à trois, ispirato a Sartre nella brumosa Parigi degli chansonniers. Francese ma cittadino del mondo, acclamatissimo soprattutto in Giappone per il legame con il Tokyo Ballet, il Béjart anni Ottanta era ancora il coreografo della monumentale IX Sinfonia di Beethoven (1964), rito di corpi in calzamaglia: un demiurgo, che tale era diventato, a tavolino, nel 1959. Sfidando la sorte, che da Parigi lo aveva chiamato al Théâtre de la Monnaie di Bruxelles, aveva edificato un repertorio antitetico a quello ottocentesco, incentrato sul primo Novecento dei Ballets Russes. La sagra della primavera (1959) come il rivoluzionario Uccello di fuoco "cinese" (1970) vennero cesellati tra alitare di braccia e potenza saltatoria muscolare, soprattutto maschile. In un battibaleno si offuscava la secolare preminenza femminile nel balletto. Di Béjart, paradossalmente danzatore mancato, verranno ricordate le belle forme sempre a dialogo con musiche intense e rapinose: Wagner, Mozart, l’amatissimo Mahler del Chant du compagnon errant, anche jazz, pop, rock. Ma le sue strategie furono ancor più importanti dei suoi meravigliosi campioni in calzamaglia e degli esiti di tanti balletti eccessivamente prolissi. Porsi in ascolto della società, creare in jeans, coltivare ideali di pace e fratellanza, puntare sull’educazione totale del ballerino, come nelle scuole Mudra di Bruxelles e Rudra di Losanna, furono tappe nel progetto di far respirare la danza insieme al suo tempo. Lui, artisticamente legato agli anni Sessanta e Settanta, vi si impegnò con implacabile raziocinio spruzzato di lirici bagliori. Novello Jules Verne, fece davvero il giro del mondo: collegando il folklore della terra al balletto. Sirtaki e danze ebraiche, ondeggiare del ventre tra gesti di Shiva che trascolorano nelle maglie di quell’incantatorio, irresistibile coup de théâtre, più che di danza, che si chiama Bolero. Marinella Guatterini