Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2007  novembre 25 Domenica calendario

Processo americano? Un mito. Il Sole 24 Ore 25 novembre 2007. Perry Mason non ha mai messo piede nei tribunali italiani

Processo americano? Un mito. Il Sole 24 Ore 25 novembre 2007. Perry Mason non ha mai messo piede nei tribunali italiani. Al di là della vulgata che accompagnò la riforma del 1989, secondo la quale il processo penale avrebbe assunto la fisionomia di quello americano – noto al grande pubblico grazie alla serie tv del celebre avvocato interpretato da Raymond Burr – il sistema accusatorio all’italiana ha sempre conservato connotati peculiari rispetto a quelli anglosassoni. Come teneva a precisare, lo stesso Gian Domenico Pisapia, guida di quella commissione che dal 1974 al 1992 elaborò il Codice di procedura. Un Codice nato per superare il rito inquisitorio del 1931, in armonia con la Costituzione, e divenuto "maggiorenne". Sono trascorsi 18 anni, infatti, dal debutto delle nuove regole (il 24 ottobre 1989) e 20 dalla legge delega che ne gettò le fondamenta la 81/87). Un lungo periodo durante il quale l’architettura processuale ideata dalla commissione Pisapia ha retto il peso di cruciali stagioni giudiziarie, da Mani Pulite ai processi contro la mafia. Ma ha anche subito innumerevoli correzioni ad opera del legislatore ma soprattutto della Corte costituzionale. Il paradosso è che la Consulta ha censurato il rito 86 volte, mentre il Codice Rocco del ’31 era stato bocciato 92 volte in 60 anni. «Le modifiche – sottolinea Pier Luigi Vigna, procuratore antimafia dal 1997 al 2005 e componente della commissione Pisapia – hanno tagliato le ali a un modello che pure aveva dato buona prova di sé. Nelle indagini sulle stragi di mafia del ’92 e del ’93, per esempio, le disposizioni che davano alla polizia giudiziaria un forte potere d’iniziativa sono state fondamentali». Il processo dell’89 ha finito per diventare un "ibrido" poco funzionale. E sono molti i giuristi che ne invocano un restyling. Tentativi in questa direzione sono stati avviati nelle ultime due legislature (con la nomina delle commissioni coordinate da Andrea Antonio Dalia e Giuseppe Riccio). E il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, ha presentato ad aprile un disegno di legge con l’obiettivo di ridurre a cinque anni la durata dei procedimenti. La crisi emerge in modo lampante dalle statistiche: a fine 2006 l’arretrato aumenta in tutte le sedi. I processi pendenti in Corte d’appello sono più di 154mila. Altri 800mila pendono in primo grado, tra tribunali, Corti d’assise e giudici di pace. Sono tre milioni i fascicoli aperti nelle Procure. Numeri che hanno come immediato risvolto quello di tempi sempre più lunghi: tra primo grado e appello mediamente si superano i 1.300 giorni. Un trend che nessuna riorganizzazione (come la soppressione delle Preture e l’insediamento del giudice unico nel 2000) e i riordini legislativi riescono a invertire. Le ragioni della crisi «Se si costruisce un processo basato sul dibattimento – commenta Oreste Dominioni, presidente dell’Unione delle Camere penali, anch’egli componente della commissione Pisapia – occorre che solo una piccola quota dei processi finisca in aula. Negli Usa, dove l’azione penale non è obbligatoria, il 10% dei procedimenti va al dibattimento. Anche perché i riti alternativi, dal patteggiamento al giudizio abbreviato, a differenza che in Italia, sono molto usati». Del resto, l’avvocato alla Perry Mason che indaga sfidando il Pm e che in aula inchioda il testimone con domande fulminanti non ha avuto spazio in Italia. Le investigazioni difensive sono state disciplinate appieno solo nel 2000 e sono tuttora adoperate raramente. Lo stesso momento clou dell’esame incrociato dei testimoni (la cross examination) perde importanza. Come la recente cronaca giudiziaria insegna (dall’omicidio di Cogne a quelli di Garlasco e Perugia) la raccolta delle prove decisive è sempre più anticipata alla fase delle indagini (per fortuna non ancora a quella dei talk show). Questo è un effetto dei progressi tecnologici – il grado di sofisticazione delle analisi dei Ris e dei metodi di intercettazione sono lì a dimostrarlo – ma è anche una conseguenza dei compromessi che hanno imposto continui ritocchi agli equilibri fissati nell’89. Indagini "scientifiche" Emblematica è la vicenda degli articoli 500 e 513 , in qualche modo il "cuore" del processo accusatorio, in quanto limitano la possibilità di utilizzare gli atti istruttori in dibattimento. «La Corte costituzionale nel 1992 con le sentenze 255 e 254 – ricorda Vittorio Grevi, ordinario di procedura penale a Pavia e componente della Commissione Pisapia – ha bocciato queste norme in base al principio di non dispersione delle prove. Di fatto, riportando nel processo accusatorio elementi del vecchio modello e dando al Pm la facoltà di far valere ai fini della prova le dichiarazioni già rese da testimoni o dall’imputato e non ripetute in dibattimento». Dichiarazioni che per il Codice dell’89 servivano solo a valutare la credibilità del teste. stato grazie a questo spiraglio se molti processi – soprattutto quelli legati alla criminalità organizzata nei quali più alto è il rischio di intimidazione – si sono celebrati. Dopo il ’99 il Parlamento ha però ripristinato l’originaria norma in attuazione del nuovo articolo 111 della Costituzione sul giusto processo. «I Pm non potranno che valorizzare fonti di prova alternativa, come le intercettazioni – aveva previsto il procuratore generale di Torino Giancarlo Caselli (anch’egli componente della commissione Pisapia) in un’intervista al Sole-24 Ore del 2004 ”. L’esperienza ci dice che sono molto frequenti le dichiarazioni non ripetute al dibattimento. E se si considera la quasi estinzione del pentitismo, l’uso da parte delle organizzazioni criminali di mezzi tecnologici sempre più avanzati e la reintroduzione della regola che impone la ripetizione delle dichiarazioni in dibattimento, si capisce perché». Insomma, se non c’è riuscito Perry Mason a salvare il processo italiano, non resta che affidarsi agli investigatori "scientifici" di «Csi (crime scene investigation)». Marco Bellinazzo