Il Sole 24 Ore 25/11/2007, pag.32 Gianfranco Ravasi, 25 novembre 2007
I colleghi del Vangelo. Il Sole 24 Ore 25 novembre 2007. Sono un lettore assiduo di mons. Ravasi sul supplemento domenicale del Sole-24 Ore
I colleghi del Vangelo. Il Sole 24 Ore 25 novembre 2007. Sono un lettore assiduo di mons. Ravasi sul supplemento domenicale del Sole-24 Ore. A lui vorrei affidare un particolare quesito che forse può essere anche una vera e propria considerazione. Sulla scia del duplice elenco di sacre violenze citate qualche tempo fa da un lettore del maggior quotidiano italiano per l’Islam e dal suo interlocutore, l’ambasciatore Sergio Romano, per l’Antico Testamento, anch’io Le invio una mia antologia ulteriore di simili efferatezze testuali. Lo faccio da cristiano che ama i Vangeli e l’insegnamento di Cristo e concludo rilanciando a Lei la domanda: «Non è meglio lasciar perdere i fratelli maggiori ebrei o i cugini musulmani, dal punto di vista religioso, e interessarci solo al Vangelo di Gesù Cristo?». Detto in altro modo: perché non lasciar perdere l’Antico Testamento col suo "collega", il Corano, evitando di investire energie sprecate per un fragile e caduco dialogo interreligioso e procedere più speditamente sulla via evangelica e in un autentico cristianesimo? Filippo Luciani - Siena Certo, se stiamo alla statistica materiale elaborata da uno studioso tedesco, R. Schwager, nell’Antico Testamento ci si imbatte in 600 passi che ci informano su «popoli, re e singoli che attaccano e uccidono altri», mentre in un centinaio di altri passi è lo stesso Signore a «ordinare espressamente di uccidere uomini». evidente che il principio: «C’è nella Bibbia e quindi è da credere» diventa pericoloso quando è adottato in modo meccanico e letteralistico. questo il cosiddetto "fondamentalismo" che, partendo anche da una personale buona fede e desiderio di fedeltà assoluta, sconfina nel paradosso per non dire nell’assurdo o nel drammatico. Il discorso, perciò, è ancora una volta quello generale della corretta interpretazione delle Scritture tenendo presenti, da un lato, una componente letteraria che è quella del linguaggio, del modo di esprimersi, dei "generi" e così via, e, dall’altro lato, una componente teologica capitale. La Bibbia Antico e Nuovo Testamento non è, infatti, un’asettica collezione di tesi o teoremi astratti da accettare e praticare automaticamente. Come è evidente in ogni sua pagina, è una storia della salvezza. Secondo le Sacre Scritture, Dio si rivela entrando nella vicenda dell’umanità, grondante peccato e miserie, e lentamente, progressivamente e con pazienza conduce l’uomo verso orizzonti di verità e di amore più alti e perfetti. La Rivelazione non è, quindi, una parola sospesa nei cieli e comunicabile solo con l’estasi, ma è concepita come un seme o un germe che si apre la strada sotto il terreno sordo e opaco dell’esistenza terrena. Noi, allora, non dobbiamo fermarci al singolo passo: esso è da considerarsi come espressione della paziente educazione di Dio nei confronti della "durezza di cuore" o del "collo indurito" dell’uomo (e questo vale anche per le violenze dell’epoca cristiana, nonostante l’evidente collisione di questo comportamento col Vangelo). Ma, senza voler rimandare alla meta a cui ci conduce Cristo, "nostra pace", come lo definisce s. Paolo, colui che ci invita persino a «porgere l’altra guancia» già nell’Antico Testamento è presentato un Dio che perdona fino alla millesima generazione (Esodo 34, 7), che scommette sulle possibilità di conversione del peccatore, che persino cambia parere e impedisce alla sua giustizia di irrompere sul male perpetrato (Esodo 32, 14). Vorremmo a questo proposito citare solo due testi emblematici. Il primo è nel libro del profeta Ezechiele: «Forse che io ho piacere della morte del malvagio dice il Signore Dio o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?... Io non godo della morte di chi muore» (18, 23.32). Il secondo è del libro della Sapienza: «Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza, ci governi con molta indulgenza. Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare l’umanità" (12, 18-19). Bisogna, però, realisticamente riconoscere che una corretta ermeneutica storica e teologica, simile a quella che l’esegesi moderna applica alla Bibbia, è sostanzialmente assente nel mondo musulmano che, nei confronti del Corano, si muove in modo letteralista, considerandolo pura e semplice dettatura divina e non un testo, se si vuole, "ispirato" da Dio ma composto da mano d’uomo in un determinato periodo storico e secondo un linguaggio che dev’essere interpretato, per coglierne l’anima autentica e il senso genuino. Per la maggior parte dei teologi musulmani il nass, in arabo il "testo", nella sua materialità è sacro e non può essere sottoposto a interpretazione. Certo, qualche eccezione esiste, come nel caso della corrente nota come "mu ´tazilismo" che si è battuta contro gli eccessi dell’interpretazione letteralista e che ha inciso soprattutto nell’Islam sciita. Anche alcuni studiosi contemporanei del Corano, come l’egiziano Nasr Hamid Abu Zayd, nato nel 1943, si battono per il superamento di una lettura meccanica del testo sacro. Ma mentre nel mondo cristiano il fondamentalismo scritturistico è rigettato dalle Chiese e circoscritto a gruppi (anche se negli Stati Uniti in questi ultimi tempi è cresciuto a livello più vasto, lambendo la politica che se ne appropria per ragioni non certo religiose), nell’orizzonte musulmano la lettura letteralista del Corano è comune e ha conseguenze pratiche facilmente immaginabili e verificabili. Gianfranco Ravasi