Aurelio Lepre, Corriere della Sera 27/11/2007, 27 novembre 2007
Nella sua ultima opera Con gusto. Storia degli italiani a tavola (Laterza), John Dickie si è proposto di scrivere una storia del cibo che riguardi non solo la cucina dei dominatori, ma anche quella dei dominati
Nella sua ultima opera Con gusto. Storia degli italiani a tavola (Laterza), John Dickie si è proposto di scrivere una storia del cibo che riguardi non solo la cucina dei dominatori, ma anche quella dei dominati. Però si è soffermato soprattutto sulla prima. E si capisce: quella dei poveri era quanto mai monotona e può essere riassunta, come fa Dickie, in tre parole: malnutrizione, fame e carestia. La scelta di non indugiare su questo argomento (lo fa solo quando tratta della carestia del 1764) gli consente di scrivere un’opera brillante e piacevole, priva delle efficacissime ma un po’ angoscianti descrizioni della fame cui ci aveva abituati Piero Camporesi. La civiltà italiana ha origini essenzialmente cittadine e le ha anche la sua cucina. Nacque infatti nella Palermo degli itriyya, i vermicelli arabo-siciliani descritti da al-Idrisi, nella Parma che era centro produttore, almeno nell’immaginario collettivo, di quel parmigiano che, cosparso su maccheroni e ravioli, diventò il simbolo del paese di Bengodi descritto da Boccaccio, e nella Milano di Bonvesin de la Riva, che sottolineava la sua abbondanza di cibo, segno della prosperità della città. La cucina ebbe poi la sua più alta celebrazione nelle città rinascimentali: la Roma pontificia, la Ferrara degli Este e le tante altre capitali di signorie piccole e grandi. In esse si svolgevano i grandi banchetti in cui il potere e la ricchezza si autocelebravano, allietati da spettacoli ed essi stessi spettacolo, dove il marzapane e la pasta di zucchero e mandorle, trasformati in statue e «trionfi », facevano da scenario all’incredibile successione delle portate. Nacquero allora gli scalchi, grandi chef e, insieme, autori di straordinari trattati. Dickie ricorda Cristoforo da Messisbugo, Bartolomeo Scappi e Antonio Latini (ma a quest’ultimo dedica uno spazio minore di quello che avrebbe meritato). Scappi, che nei suoi scritti illustrò pranzi interminabili, lavorò per un papa molto parco, ma i suoi predecessori si erano ipernutriti. Anche il cibo dei conclavi era vario e abbondante; era sottoposto a un rigido esame, ma solo per accertarsi che i cardinali non se ne servissero per scambiare informazioni con l’esterno. Era necessario che i controlli fossero particolarmente accurati, se è vero, come ho letto nel trattatello che Giambattista Della Porta dedicò alla cifratura dei messaggi, che essi venivano introdotti nei conclavi in gusci d’uovo, attraverso una piccola fessura otturata poi con calce e gomma arabica. John Dickie conosce l’arte del raccontare e non fa un noioso elenco di fatti e personaggi, ma tratta di quelli di maggior rilievo mano a mano che se ne presenta l’occasione. esistita una cucina borghese anche nel Rinascimento (e in alcune città pure nel Medioevo), ma Dickie ne parla diffusamente soprattutto per l’Ottocento, quando si affermò definitivamente, sul piano qualitativo e quantitativo, perché le ricette riportate nei trattati facevano ormai parte del patrimonio culturale di un gran numero di famiglie. Fu allora che si formò la cucina odierna, che, contrariamente a quanto molti credono, non ha radici in un lontano passato: solo per la metà dell’Ottocento, per esempio, viene testimoniata l’esistenza di vermicelli al pomodoro. Con qualche ulteriore ritardo: la pizza suscitava ancora ripugnanza non solo nel toscanissimo Carlo Collodi, ma anche nella napoletanissima Matilde Serao e soltanto nel 1889 fu sdoganata dalla regina Margherita: in suo onore fu dato il nome alla sua più famosa variante. Non fu il Risorgimento a unificare l’Italia della cucina: i patrioti avevano altro a cui pensare. Bisognò aspettare La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, per avere il testo sacro della nuova cucina italiana. Che visse un momento di difficoltà dopo la crisi economica del 1929. Fernanda Momigliano (costretta nel 1943, nonostante avesse pubblicato anche un patriottico Mangiare all’italiana, a entrare in clandestinità perché ebrea) pubblicò allora Vivere bene in tempi difficili: come le donne affrontano le crisi economiche. Forse però Dickie avrebbe potuto ricordare anche i libri di ricette di Petronilla, che aiutò le donne italiane in tempi ancora più difficili, durante la Seconda guerra mondiale, inventando la cucina del poco e del niente. Fu il trionfo della fantasia ai fornelli, del burro fatto con latte e grasso di carne, del caviale imitato con olive tritate. I tempi di Cristoforo da Messisbugo e di Antonio Latini apparvero allora molto lontani.