Francesco Verderami, Corriere della Sera 27/11/2007, 27 novembre 2007
ROMA – L’incubo del referendum disturba il sonno di molti nel Palazzo. Rifondazione e Lega sono preoccupati di perdere la loro identità
ROMA – L’incubo del referendum disturba il sonno di molti nel Palazzo. Rifondazione e Lega sono preoccupati di perdere la loro identità. I piccoli partiti dell’Unione temono di venir cancellati dalla cartina geografica della politica, e anche i centristi sarebbero costretti a chiudere il loro rumorosissimo cantiere. Come se non bastasse, il fronte referendario si assottiglia giorno dopo giorno. Ieri Veltroni ha detto a Fini che la legge elettorale è necessaria perché «c’è il problema di evitare la consultazione popolare». Il leader del Pd ha legato questa sua posizione al fatto che «con il referendum rischia di saltare il banco del governo». Ma più che per il destino di Prodi, pare sia preoccupato per il proprio futuro: il sistema elettorale ipermaggioritario, infatti, farebbe saltare il disegno del Pd «a vocazione maggioritaria», e lo costringerebbe ad accordarsi con partiti e partitini pur di vincere, rimanendo così ostaggio dell’attuale formula di centrosinistra. Nel centrodestra, Fini continua formalmente a sostenere il referendum, però sa che se si andasse alle urne con il listone unico, dovrebbe accettare la leadership di Berlusconi. E il Cavaliere, che è attratto dall’evenienza, teme a sua volta la rottura con la Lega, determinante per vincere le elezioni. Insomma, il referendum sta diventando ingombrante. Ecco perché nel Palazzo – proprio nel giorno in cui la Cassazione dà il via libera sulle firme – tornano a farsi sentire con insistenza le voci che circolavano già nei mesi scorsi. A parte i dubbi di costituzionalità che Bassanini serve a ogni cena ad alcuni amici della Consulta, c’è una nuova teoria, legata alla Grande Riforma che in questi giorni è all’esame della Camera. Secondo questa tesi, molto arzigogolata, se il Parlamento dovesse approvare in prima lettura la revisione della Carta Costituzionale, cambierebbe la natura del Senato, che diverrebbe «federale ». In prospettiva, dunque, una parte dell’impianto referendario diverrebbe eccepibile, perché la legge elettorale del nuovo Senato sarebbe diversa da quella della Camera. Roba da riviste giuridiche, se non fosse che il problema è politico, l’allarme è al livello rosso, e le pressioni sulla Consulta sono fortissime: senza un suo «intervento » è difficile infatti bloccare il timer della consultazione. Mancano i tempi, come sussurrano tutti gli sherpa dei partiti impegnati nella trattativa sul nuovo sistema di voto. Calendario alla mano, senza un accordo a larghissima maggioranza, sarebbe impossibile evitare il referendum. Se l’esame della riforma elettorale partisse al Senato a metà gennaio, arriverebbe alla Camera non prima di metà febbraio. E a Montecitorio, per via dei regolamenti parlamentari, basterebbe l’ostruzionismo di un solo partito per far saltare il ruolino di marcia. Per contingentare i tempi, bisognerebbe slittare con l’agenda a marzo. Peccato che alla fine di quel mese il governo dovrebbe indire i comizi elettorali per la consultazione a fine maggio, ed è impensabile che un bipolarista come Parisi accetti dall’esecutivo uno slittamento a giugno. Insomma, mai come adesso gli anti- referendari volgono lo sguardo verso il Colle più alto di Roma, dove hanno sede la Corte Costituzionale e il Quirinale. Perché il tempo passa e di accordo sulla legge elettorale non c’è traccia. Venerdì l’incontro tra Veltroni e Berlusconi può già essere decisivo. «Ma a nome di quanto Pd e di quanta Unione parla Veltroni?», si chiedeva ieri il forzista Cicchitto. difficile muoversi tra veti incrociati, lo s’intuisce da un frammento del colloquio di ieri tra Veltroni e Fini. «Sarebbe bello un sistema semi-presidenziale alla francese», ha detto a un certo punto il leader di An: «Fosse così, accetterei il doppio turno». «A chi lo dici », ha sospirato il segretario del Pd. Entrambi devono invece fare i conti con Prodi e Berlusconi. Raccontano che ieri il Cavaliere fosse compiaciuto, perché i sondaggi danno alla sua nuova creatura il 35% di gradimento e il 30% nelle intenzioni di voto, insieme a un consistente calo di An. Ma i sondaggi non danno la felicità se le elezioni si allontanano. Le urne nel 2008 si aprirebbero solo per il referendum. A meno che...