Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 26/11/2007, 26 novembre 2007
Anche l’immigrato Edoardo «Edward» Corsi, il futuro direttore di Ellis Island, non avrebbe potuto avere la residenza a New York con le regole di Cittadella: «La nostra vita a East Side era simile alle vite di migliaia e migliaia di famiglie di immigrati
Anche l’immigrato Edoardo «Edward» Corsi, il futuro direttore di Ellis Island, non avrebbe potuto avere la residenza a New York con le regole di Cittadella: «La nostra vita a East Side era simile alle vite di migliaia e migliaia di famiglie di immigrati. Una lotta continua. «C’erano molte volte in cui in casa non avevamo nulla da mangiare. Ci fu un periodo in cui il mio patrigno rimase senza lavoro per diciotto mesi ».Bartolomeo Vanzetti, nei suoi primi mesi americani, la casa non l’aveva neppure. Dormiva sotto gli alberi, coprendosi coi cartoni, e scriveva alla sorella che «i poveri dormivano all’aperto e rivoltavano le immondizie nei barili per trovare una foglia di cavolo o una mela marcia. Per tre mesi percorsi New York per lungo e per largo, senza riuscire a trovare un lavoro». Sono due testimonianze, ma se ne potrebbero citare a migliaia. Tutta la letteratura autobiografica della nostra emigrazione, vastissima, trabocca di racconti simili. E dimostra che la tesi risuonata in questi giorni, secondo cui «quando gli emigranti eravamo noi» andavano solo là dove c’era il lavoro e una casa già assegnata, è una stupidaggine dovuta all’ignoranza. Peggio: all’ipocrita rimozione del nostro passato. Riletto e aggiustato a uso e consumo della politica. Sia chiaro: la valutazione giuridica dell’ordinanza del sindaco di Cittadella, che pretende di poter scegliere a chi concedere e a chi no la residenza sulla base di una valutazione del suo reddito e della casa in cui abita, va lasciata ai giuristi. Che, a riprova di quanto il problema sia complesso, si sono spaccati tra chi la considera una mostruosità e chi invece una decisione forse forzata ma comunque poggiata su norme europee. E anche se fanno sorridere le sparate del leghista Federico Bricolo secondo cui «prima», con la legge Bossi-Fini «si poteva entrare nel nostro Paese solo avendo già un lavoro e una casa» (col governo di destra, secondo l’Istat, dal 2001 al 2004 gli immigrati sono in realtà saliti da 1.334.889 a 2.402.157) è impossibile dare torto a quei sindaci che, davanti ad afflussi massicci, si sentono soli. Com’è inaccettabile il modo in cui una certa sinistra, primo fra tutti Alfonso Pecoraro Scanio, ha liquidato il senso di insicurezza dei cittadini veneti: «Il tono del dibattito sulla sicurezza è ormai da sceneggiata all’italiana, da barzelletta». Se un rapporto riservato del Comando carabinieri del Lazio dice che a Roma nei primi mesi del 2007 sono stati arrestati 91 albanesi, 94 algerini, 135 bosniaci, 179 marocchini e 1.439 romeni (dati che confermano l’andamento del 2006 con 4.033 romeni in manette: 16 volte più dei secondi classificati, i marocchini) è stupido che gli antirazzisti scansino il tema con cicalecci sociologici. Il problema c’è. E chi combatte il razzismo deve farsene carico proprio per non lasciare spazio ai razzisti. A Roma come nel Veneto. Dove ieri anche il governatore Giancarlo Galan, che pure ha la Lega come socio forte nella maggioranza e aveva appoggiato le proteste dei sindaci veneti contro Roma, si è sentito in dovere di prendere le distanze dai toni usati a Cittadella «che incitano al razzismo e all’odio sociale». E lì si torna: un conto è la fermezza, un altro la xenofobia. Un conto è la sacrosanta durezza contro la criminalità, un altro l’invito alla pulizia etnica. Un conto è prendere le impronte digitali, un altro sbraitare di «bingo bongo» come Umberto Bossi o teorizzare come Erminio Boso che vanno prese le impronte dei piedi «perché si può risalire a "tracciati particolari" delle tribù». Insomma: occorre sempre e comunque avere rispetto degli altri. Sennò non si ha rispetto neppure della propria storia. Quanti nostri emigranti non sarebbero stati in grado di dimostrare di guadagnare l’equivalente dei 10.123 euro chiesti oggi a Cittadella a un emigrato con due persone a carico? Milioni, forse. Almeno nella prima fase del loro insediamento. Si pensi ai nostri minatori vittime del massacro di Calumet, nel Michigan, del 1913: prendevano 8 dollari la settimana in anni in cui, dicono le memorie di Samuele Battista Turri, una bistecca in trattoria costava un dollaro e mezzo. Per non dire dei «requisiti minimi di salubrità ambientale previsti dalla legislazione vigente anche e soprattutto in correità con i limiti di affollamento » chiesti dal sindaco padovano. Rileggiamo quanto scriveva Jacob Riis di un block di Bayard Street nella Little Italy di New York? «In un solo isolato di caseggiati che totalizzava 132 stanze, vivevano 1.324 italiani ». E il regio ispettore dell’emigrazione Giacomo Pertile, un vicentino di Roana? «Nella maggior parte dei nostri operai non è per nulla sviluppato il sentimento della pulizia e della decenza (..) L’operaio che viene dalla Basilicata o dal Napoletano, dove abita in piccole, poverissime case simili ad alveari, talvolta scavate sotto terra (..) o dalle campagne venete e lombarde, ove abita in casolari intessuti di fango e vimini; o dalle pendici alpine; (..) l’operaio, dico, che arriva da questi luoghi, ha dei bisogni limitatissimi da soddisfare; egli non sente nessuna necessità di elevarsi un po’. (...) Domandate un po’ a questi operai perché vivono così male ed essi vi risponderanno invariabilmente che a casa loro vivevano assai peggio». Era il 1914. Medioevo? No: partivano allora i primi voli di linea e c’era da 90 anni il treno, da 60 il motore a scoppio, da 51 la metropolitana di Londra, da 49 il fax nelle poste francesi, da 38 il primo grattacielo, da 35 l’elettricità... un peccato, perdere la memoria. I veneti potrebbero ricordare, ad esempio, quanto scriveva il veneto Giuseppe Sanson, emigrato in Belgio mezzo secolo fa: «Eravamo in 120-130. (...) Il mangiare era deplorevole, le stanze e la pulizia erano qualcosa di spaventoso. (..) I gabinetti non funzionavano ed erano sempre sporchi. Le lenzuola erano fatte lavare dal cantiniere ogni quindici giorni». O raccontava il veneto Tarcisio Carlet a Oggi nel 1964: «A Zurigo a noi italiani danno le cantine, i pollai, le stamberghe per gli attrezzi. Si lamentano perché siamo sporchi, perché lasciamo le camere come delle stalle, quando ce ne andiamo. Si lamentano perché in una camera gli italiani vanno a starci in sette od otto». O i dati del sociologo Ulderico Bernardi sulle case del Veneto nel 1961: il 48% era senza acqua corrente, il 52% senza gabinetto, il 72% senza bagno... Gian Antonio Stella