Lucia Annunziata, La Stampa 25/11/2007, 25 novembre 2007
In realtà, sorprendente non è che oggi si dividano, ma che finora siano stati uniti. Poche persone infatti come Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini sono fatte - personalmente, antropologicamente, e, solo infine, politicamente - per non stare insieme
In realtà, sorprendente non è che oggi si dividano, ma che finora siano stati uniti. Poche persone infatti come Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini sono fatte - personalmente, antropologicamente, e, solo infine, politicamente - per non stare insieme. Per dire: nel tempo libero il primo ama emergere (in piazza), il secondo immergersi (in mare). Il primo è scoppiettante, il secondo è legnoso e, quando entrano in depressione, il primo fa il lifting, il secondo se ne va in vacanza. Figli di due culture diverse, Fini è statalista in economia, difensore dello Stato, dell’ordine e della magistratura; Berlusconi è un liberista che vuole uno Stato che non ingerisca, né con tasse, né con divise e ancora meno con magistrati. Infatti, all’inizio della loro alleanza, la giustizia è stata spesso ragione di divisione: prima pietra dello scandalo fu il magistrato di «Mani pulite» Antonio Di Pietro, difeso da Fini; poi venne il decreto Biondi del 1994 sulla limitazione della custodia cautelare, rifiutato da Fini. Insomma «l’anomalia italiana è che si sia confusa la destra con Silvio Berlusconi», come scrive l’intellettuale di destra Angelo Melloni nella introduzione al libro «Il tabù della destra» (Castelvecchi editore) di Eric Brunet. Anomalia, infatti, è stata. E non ci si può oggi sorprendere. La coppia Berlusconi-Fini è stata in politica una versione sublimata di un nobile ma non per questo meno sofferto matrimonio di interesse. Ora che è finita - lamentano le parti - la memoria pare breve. Il 12 settembre di questo 2007, tempo splendido nella Capitale, festa dei Giovani di Alleanza Nazionale, Silvio arriva acclamato - quel giorno, si ricorda ora in An, Fini ascoltò Silvio confuso tra la folla (con umiltà, dunque), e quando salì sul palco fu solo per spronarlo a fare presto «a fare il partito unico, perché questo è quello che la gente ci chiede». Lui, Fini, un traditore? dicono oggi i finiani. Senza intenzione, forse, ma è più quel che non andava - recriminano gli uomini del Cavaliere. Storie lontane, ma rilevanti per capire i corsi e ricorsi di una alleanza. C’è ad esempio la vicenda del governo Maccanico: una breve stagione di eccitazione nazionale, durata solo due settimane, molto pertinente da richiamare oggi per alcune somiglianze. Il primo febbraio 1996 Maccanico ha l’incarico dal presidente Scalfaro, dopo le dimissioni di Lamberto Dini che aveva guidato un governo ribaltone-antiBerlusconi. Allora come oggi l’alternativa era riforme o voto anticipato. Allora come oggi, si provò a formare un governo per le riforme istituzionali. Il 10 febbraio Maccanico si presenta in Quirinale sostenendo di aver «constatato una larghissima maggioranza», il 14 rinuncia denunciando «condizionamenti politici, ostacoli e limitazioni crescenti». Intorno a quel tentato accordo, come a tutti gli altri successivi, fioriscono ancora oggi storie e leggende. Un paio di cose sono però chiare: Berlusconi, in quel momento molto incerto sul suo futuro, era favorevole; Fini invece, convinto di poter andare alle elezioni anticipate e sorpassare Forza Italia, era contrario. Alle elezioni si andò, dunque, nel 1996, e vinse Romano Prodi. L’azzardo di Fini non funzionò neanche nel rapporto interno alla opposizione: prese un notevole 15,7 per cento, ma Forza Italia salì al 20 per cento. Ma Fini, in quegli anni ancora il leader rabbioso e affamato uscito «dalle fogne» (come si diceva per insultarlo), immagina comunque la fine del Cavaliere e continua a provare a smarcarsi. Nel 1998, da maggio a giugno, il leader di An diviene un forte sostenitore della Bicamerale, che viene invece affossata senza batter ciglio da Silvio. Fini si getta allora sui referendum, sostenendo nel 1999 la consultazione per l’abolizione del voto di lista per l’attribuzione con metodo proporzionale di un quarto dei seggi della camera. Favorevoli anche Ds e Di Pietro; contraria Forza Italia, la cui opposizione aiuta il non raggiungimento del quorum. Ancora nel 1999, Fini prova a fare liste comuni alle europee con Mario Segni, avversario del Cavaliere. La campagna elettorale è molto vivace, ma l’alleanza muore davanti al misero 10 per cento del risultato, cioè 5 punti in meno di quel che Fini aveva avuto alle politiche. Gianfranco non fece autocritica, si impegnò anzi a rilanciare altri due referendum (sarebbero falliti entrambi), ma ritornò a casa. Non si rivelò incline però al perdono il Cavaliere, che nel primo periodo della vittoria elettorale del 2001 farà mangiare molta biada al suo alleato di An, tenendolo a lungo fermo in stalla. Ricordate la nomina di Ruggiero a ministro degli Esteri, e, dopo, il lungo interim dello stesso premier, che insegnava alle feluche italiane come vestirsi e come promuovere gli interessi economici dell’Italia all’estero, mentre il ministro degli Esteri in pectore, Fini, fremeva? E ricordate le vacanze (sempre senza Fini) del premier con Putin e Bush? D’altra parte, Fini non ha mai perso occasione per segnare le sue distanze: ricordate la volta in cui Berlusconi diede del «Kapò» al tedesco Shultz, in Parlamento europeo? Mentre parlava, Fini si portava le mani al viso. Naturalmente, Berlusconi ha tanta forza economica che è difficile indebolirlo. Ma fra i suoi tanti interessi c’è almeno un nervo sensibile che il leader di An non si è mai sottratto a pizzicare: le televisioni. E’ su questo terreno così che meglio si misura forse la maggior distanza fra i due alleati. Berlusconi ha un controllo facile, anche personale, della tv e lo usa fino in fondo: quando si recò da Vespa per firmare il contratto con gli italiani in diretta, Fini si seccò moltissimo. Non era stato avvertito, e considerò poco elegante che il patto fosse firmato da Silvio e non da tutta la coalizione. A compensare il controllo del medium da parte di Berlusconi, c’è tuttavia la sua completa dipendenza dagli alleati Fini e Udc per la parte della regolamentazione legislativa sulla tv. Su questo terreno infatti sia Fini che l’Udc lo hanno a volte messo sotto pressione. Ad esempio, An da convinta statalista è da sempre forte supporter del servizio pubblico, e nelle nomine in Rai è spesso in competizione con Forza Italia. Nella esperienza interna di Viale Mazzini, è sempre stato molto più problematica la collocazione di dirigenti vicini a Forza Italia che di An. La differenza è tale che quando si arrivò alla nuova legge, dentro An si formò una corrente di «berluscones», fra cui il ministro proponente: ancora si ricorda la battuta di Storace che disse che Gasparri era il primo ministro che avrebbe dato il nome a una legge che non aveva letto. Stesso schema di gioco applica oggi Berlusconi, con Storace nella nuova parte. Corsi e ricorsi. Le tv sono ancora alla fine dunque l’unico vero campo in cui Fini e Casini possono fare un po’ di male a Silvio. Sentite ad esempio l’accreditata storia che circola in questi giorni sulla rottura in corso fra gli ex alleati: quando Fini, due settimane fa, chiama Berlusconi per lamentarsi dei servizi di «Striscia la notizia» sulla sua nuova compagna, a un certo punto dice: «Io ti rovino, mi basta votare la Gentiloni!». E se lo facesse davvero? Pensate che cambiamento ci sarebbe in Italia. Ma lo farà? Il fatto è che finora, come si è visto, Gianfranco è sempre tornato da Silvio. Potenza del potere. Stampa Articolo