Guido Santevecchi, Corriere della Sera 25/11/2007, 25 novembre 2007
LONDRA
«La domanda adesso non è se i talebani torneranno a Kabul, ma quando e in quale forma», dice Norine MacDonald, capo dei ricercatori del Senlis Council, un think tank europeo radicato in Afghanistan. Il gruppo indipendente ha appena presentato un rapporto che è un atto d’accusa per le contraddizioni dell’operazione militare e umanitaria dell’Occidente.
«I talebani sono forti nel 54 per cento dell’Afghanistan, vanno ripetendo che il loro obiettivo è di rientrare nella capitale nel 2008: per evitarlo la comunità internazionale deve imporsi un drastico cambiamento di strategia. La sconfitta sarebbe una catastrofe per la sicurezza globale e segnerebbe anche la fine della Nato», sostiene MacDonald. Secondo lo studio del Senlis Council, l’Alleanza atlantica dovrebbe anzitutto raddoppiare il suo contingente, da 40 a 80 mila militari, trasformandosi in una «Nato Plus force», che significa trovare anche una componente di 10 mila uomini di Paesi islamici. Nato Plus darebbe due segnali vitali: facendo capire ai talebani che l’Occidente è deciso a continuare la sfida; e alla gente afghana che la stabilità del loro Paese sta a cuore anche ai musulmani moderati, spiega Paul Burton, capo della sezione analisi politica del Senlis Council a Londra.
Le conclusioni del think tank civile sono simili a quelle del generale Dan McNeill, il comandante americano della forza Nato fornita da 38 Paesi. L’ufficiale, che si è fatto un’esperienza drammatica di lotta anti-insurrezione ai tempi del Vietnam, è convinto che i talebani abbiano sempre in mente Kabul. I rapporti sulla sua scrivania dicono che la guerriglia non è più un gruppo omogeneo di combattenti pashtun, come nel 2001. Oggi la Nato si trova di fronte una miscela di fazioni ostili al governo Karzai e questa situazione ha portato alcuni governi occidentali, compreso quello di Londra, a credere che si possa usare la linea della trattativa separata con i signori della guerra locali. Ma proprio il frazionamento della guerriglia e la differenza di obiettivi, secondo il comando americano, porta a dubitare che un accordo possa funzionare.
Un esempio viene da Musa Qala, nella provincia meridionale di Helmand, dove l’anno scorso i britannici avevano deciso di mettere fine a una battaglia in stile «avamposto degli uomini perduti». Fu negoziata con i talebani la smilitarizzazione a fini umanitari. Tre giorni dopo il ritiro degli inglesi i guerriglieri sono tornati in città, trasformandola in un santuario della ribellione.
La Gran Bretagna ha in Afghanistan 7.700 uomini. E quando nel 2005 era stato deciso di rafforzare il contingente, il ministro della Difesa di Londra aveva presentato la missione come più o meno pacifica: «Con un po’ di fortuna i nostri ragazzi non dovranno sparare un colpo », aveva detto. Le cose non sono andate così: più di 80 uomini sono tornati in bare avvolte dalla Union Jack. In primavera potrebbero essere spediti a Helmand i quattro battaglioni del reggimento paracadutisti, la prima volta dai tempi dello sbarco in Normandia che tutti i parà di Sua Maestà si troverebbero contemporaneamente in azione all’estero.
Nella ricerca di rinforzi, da Londra si levano giudizi duri sugli alleati «che non vogliono fare la loro parte». I tedeschi a quanto pare ritirano i loro elicotteri ogni giorno prima del tramonto, all’ora del tè. « For us ze war is over by tea time, ja », riassume il Times con parodia acida.
Guerriglieri
Guerriglieri talebani armati di lanciarazzi e kalashnikov in Afghanistan. Cacciati da Kabul alla fine del 2001, hanno ripreso il controllo di diverse regioni, soprattutto nel sud del Paese Guido Santevecchi