Giorgio La Malfa, La Stampa 24/11/2007, 24 novembre 2007
Per oltre 50 anni, dal ”46 quando fu costituita Mediobanca fino al 2000 quando scomparve a 92 anni, Enrico Cuccia, di cui ricorre oggi il centenario della nascita, s’è identificato totalmente con Mediobanca
Per oltre 50 anni, dal ”46 quando fu costituita Mediobanca fino al 2000 quando scomparve a 92 anni, Enrico Cuccia, di cui ricorre oggi il centenario della nascita, s’è identificato totalmente con Mediobanca. E Mediobanca è stata plasmata dalle sue idee e dal suo stile di lavoro. Cuccia è stato non soltanto un grande banchiere - «Il più grande di tutti noi», sembra fosse il giudizio di André Meyer partner della Lazard Frères, lui stesso una delle figure di maggiore spicco nella finanza mondiale del secondo dopoguerra - è stato anche un uomo di straordinarie qualità intellettuali ed umane. La difficoltà di parlare e di scrivere di Enrico Cuccia nasce dalla ritrosia, se non dalla vera e propria allergia a qualsiasi forma di comunicazione pubblica che fu un suo tratto caratteristico. In tutto questo periodo egli non ha mai dato un’intervista, né fatto una dichiarazione alla stampa, né preso la parola in pubblico, se non nelle assemblee di Mediobanca. Di suo pugno vi sono soltanto due brevi scritti in ricordo di due uomini ai quali egli fu profondamente legato, Raffaele Mattioli e Donato Menichella e una nota di grande interesse del 1997 su «L’inserimento delle banche italiane nel sistema europeo» che tuttavia egli volle che fosse pubblicata anonimamente dalla Fondazione La Malfa (vedi: www.fulm.org). Non vi sono quindi documenti ai quali fare riferimento, ma solo ricordi personali di chi ha avuto l’occasione - e la fortuna - di conoscerlo. L’iniziativa per la creazione di Mediobanca venne presa da Raffaele Mattioli, allora amministratore delegato della Banca Commerciale Italiana, a metà del 1944, dopo la liberazione di Roma, quando cominciava a profilarsi la fine della guerra. Scrisse Cuccia nella prima relazione di bilancio di Mediobanca letta nell’Assemblea del 29 ottobre 1947: «In un momento in cui il nostro Paese muoveva i primi passi per uscire dal labirinto delle sue rovine era sembrato essenziale per la ripresa economica italiana la creazione di un organismo che promuovesse la formazione di nuovo risparmio a media scadenza necessario a mettere le aziende produttive in condizioni finanziarie di equilibrio e che contribuisse a contenere le richieste delle aziende stesse all’impoverito settore creditizio ordinario entro i limiti delle effettive esigenze a breve termine». Appena costituita Mediobanca, Cuccia ne divenne direttore generale, poi anche amministratore delegato ed infine dal 1988 presidente onorario. Nato a Roma nel 1907 da una famiglia siciliana di origini albanesi, figlio di un alto funzionario del Tesoro, Cuccia si era laureato in legge nel 1929, aveva iniziato a lavorare in banca a Parigi nel 1930 in Sud Ameris. Era stato assunto in Banca d’Italia nel 1931 e assegnato alla Rappresentanza londinese. Dal 1934 aveva lavorato all’Iri con Beneduce e Menichella. Restò all’Iri fino al 1938 con l’intermezzo fra il 1936 e il 1937 dell’incarico di rappresentante del sottosegretariato - poi ministero - degli Scambi e delle Valute in Africa Orientale. Qui ebbe uno scontro, ricostruito anni or sono da Sandro Gerbi su questo giornale, con il Viceré, il Maresciallo Graziani, originato da operazioni valutarie sospette del Maresciallo e del suo entourage e concluso a favore di Cuccia (che aveva allora 29 anni) con il pubblico apprezzamento da parte di Mussolini per il lavoro da lui compiuto. Nel 1938, su indicazione dell’Iri, venne assunto da Raffaele Mattioli alla Banca Commerciale e assegnato al settore estero. A Milano collaborò attivamente alla cospirazione antifascista nelle file del Partito d’Azione. Al momento della costituzione di Mediobanca Cuccia aveva la qualifica di condirettore centrale della Comit. L’esigenza di un istituto di credito specializzato nei finanziamenti agli investimenti non era legata soltanto alle contingenze della ricostruzione postbellica. Essa nasceva anche a seguito della vasta riorganizzazione del settore bancario alla quale si era proceduto negli Anni 30 dopo le grandi crisi bancarie dell’inizio del decennio. La descrizione più vivida del modo nel quale si era venuta a determinare la crisi si deve a Raffaele Mattioli in uno scritto del 1962: «Alla vigilia della crisi del 1930-31 - scrisse Mattioli - la struttura delle grandi banche italiane di credito ordinario aveva subìto trasformazioni, o meglio deformazioni ”stupende”. Il grosso del credito da esse erogato... era fornito a un ristretto numero di aziende, un centinaio, che con quell’aiuto avevan potuto svilupparsi notevolmente ma che ne dipendevano ormai al punto da non poterne fare più a meno. In altre parole, eran sotto il controllo delle banche». In uno scritto del 1944, di cui Cuccia teneva una copia nella sua scrivania, Menichella aveva spiegato un altro aspetto della crisi illustrata da Mattioli, cioè il coinvolgimento della Banca d’Italia in tutto questo pasticcio. Infatti, nella difficoltà di rientrare nei loro crediti verso le industrie, dopo la crisi del ’29 «le banche si rivolsero all’Istituto di emissione e questo largamente concesse loro credito sia sotto forma di anticipazioni e sconti dapprima di portafoglio commerciale, poi, questo esaurito, di grossi cambialoni emessi dalle aziende industriali e... mediante anticipazioni di fondi...». La sistemazione di questo disastro fu ideata e voluta da Alberto Beneduce, una delle personalità più interessanti della prima metà del secolo. Nel gennaio del ’33 fu costituito l’Iri; esso rilevò tutte le partecipazioni azionarie della Comit, del Credito e del Banco di Roma (così facendo divenne anche proprietario delle tre banche), in tal modo liberandole dai crediti incagliati dei loro grandi debitori. In contropartita le banche si impegnarono a non operare più nel campo dei crediti finanziari e a limitarsi al credito a breve termine. Era quindi necessario che la funzione del finanziamento degli investimenti venisse assunta da istituti che si specializzassero in questa attività. Solo che per evitare di ricadere nelle situazioni di crisi da cui si era faticosamente usciti con la creazione dell’Iri e la pubblicizzazione di buona parte dell’apparato industriale italiano bisognava - aveva scritto una volta Beneduce - che tali istituti fossero «indipendenti da interessi particolari di gruppo e gestiti con rigidità di criteri». Mediobanca fu la concretizzazione di questo disegno. E non vi è dubbio che Cuccia sia stato fedele al mandato sia quanto a indipendenza che a rigidità di criteri. Nel valutare gli affari Cuccia aveva un preciso codice di comportamento. Il primo caposaldo era la assoluta autonomia di Mediobanca nel decidere le operazioni da intraprendere e quelle da rifiutare. Questa valeva ovviamente per qualunque influenza di ordine politico, ma valeva anche, a costo di qualche frizione, anche nei confronti degli azionisti. Una volta Mattioli gli ricordò che Mediobanca non era per le Bin un semplice investimento di portafoglio: la disputa è sempre stata interpretata nel senso che Mattioli lamentasse un eccesso di attivismo di Mediobanca; in realtà essa era nata dalla ragione opposta, cioè dall’ostinato rifiuto di Cuccia di concedere un credito a un gruppo industriale appoggiato dalla Comit che Mediobanca considerava destinato al fallimento (come poi avvenne qualche anno dopo): «Meglio verdi di rabbia per un buon affare non fatto che rossi di vergogna per un affare da non farsi» - ripeteva spesso ai suoi collaboratori. Il secondo caposaldo era che Mediobanca non doveva concedere facilmente il credito, ma se lo concedeva, l’imprenditore doveva sapere di avere a fianco un partner molto forte che non si sarebbe tirato indietro e non lo avrebbe abbandonato in mezzo al guado: «metà consigli e metà dané» - diceva adattando un detto milanese. Il terzo caposaldo era la diffidenza - che condivideva con Bruno Visentini - verso il cosiddetto capitalismo manageriale e le cosiddette «public companies». Riteneva infatti che le imprese dovessero avere un solido nucleo di azionisti impegnati stabilmente in esse, ai quali i managers dovessero rispondere. Cuccia non amava particolarmente i capitalisti, spesso troppo desiderosi di fama o troppo avidi. Sapeva che nelle imprese private i passaggi generazionali costituivano dei grossi problemi, notava come il capitalismo italiano fosse un capitalismo senza capitali, ma nello stesso tempo riteneva che fosse necessario creare un argine contro una ulteriore espansione del già vasto controllo pubblico dell’economia che l’Italia aveva ereditato dal fascismo e che trovava d’accordo nell’Italia del dopoguerra sia le correnti cattoliche, che quelle socialiste e comuniste che dominavano la vita italiana. Per questo, sentendo crescere la pressione politica - la mainmise dei partiti come la chiamò nello scritto che dedicò a Menichella - cercò di sottrarre Mediobanca prima e le Bin subito dopo al controllo dell’Iri. Riuscì nell’intento, ma in questo ebbe dei duri momenti di scontro con Romano Prodi, allora presidente dell’Iri, con il quali i rapporti non furono mai felici. Cuccia aveva un rigore calvinistico nel suo lavoro. Ma fuori dell’attività bancaria era un uomo coltissimo con una straordinaria passione per la lettura. Era anche un uomo spiritoso con il quale si rideva volentieri. Ma soprattutto era una persona di grande passione civile. Egli appartiene di diritto a quel novero di figure straordinarie come Alberto Beneduce, Donato Menichella, Raffaele Mattioli, Paolo Baffi di cui si può parlare come di autentici servitori dello Stato. La malinconia per la condizione in cui versa oggi l’Italia è anche legata alla scomparsa e alla mancata sostituzione di quella generazione di uomini di prim’ordine. Stampa Articolo