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 2007  novembre 24 Sabato calendario

Beirut non ha spento le sue luci ma le strade sono deserte. La decisione di non decidere dovrebbe raffreddare gli animi, lasciando spazio a una «trattativa pragmatica»

Beirut non ha spento le sue luci ma le strade sono deserte. La decisione di non decidere dovrebbe raffreddare gli animi, lasciando spazio a una «trattativa pragmatica». Una trattativa capace di partorire finalmente il nuovo presidente della Repubblica. Il vecchio presidente, il filosiriano Lahud, è stato ieri il protagonista d’una sceneggiata. Era evidente la sua intenzione di rimanere incollato alla poltrona per così formare un «governo alternativo» a quello, in carica, di Fuad Siniora. Per tagliargli l’erba sotto i piedi, la maggioranza parlamentare ha subito ricordato come la «scadenza naturale» (entro la mezzanotte) del mandato non ammettesse deroghe e punisca i colpi di mano. A ruota dell’ammonimento, proprio una manciata di minuti, Lahud ha protestato l’«amor di patria» proclamando di non aver nessuna intenzione di «uscire dai binari costituzionali». A questo punto il parlamento ha ritenuto «corretto» riconvocarsi il 30 di novembre. Va qui detto (con gli scongiuri di rito) che la saggia decisione di decidere di non decidere, oggi, per poter, domani (il 30 di novembre), sciogliere il nodo presidenziale, sia stata suggerita ai libanesi (quelli doc e quelli filosiriani) dalla cosiddetta Troika comunitaria in missione-blitz nel bellissimo ma jellato Paese dei Cedri. Unico e solo paese arabo solidamente multiconfessionale, ricco di tutti gli strumenti democratici, orgoglioso della sua veramente libera stampa. (Una stampa invero coraggiosa, nobile; durante l’ultima sciagurata guerra civile, il quotidiano in lingua francese L’Orient-Le Jour è uscito tutti i giorni, tranne uno). Si vuole che l’idea di suggerire ai libanesi-doc e a quelli filosiriani una «pausa di riflessione» sia stata del nostro ministro degli Esteri che, in uno con gli omonimi francese (Kouchner) e spagnuolo (Moratinos) confiderebbe nel pragmatismo dei discendenti dei Fenici. Loro, i libanesi, leggendari produttori di benessere infinitamente stanchi del ruolo di produttori di cadaveri cui li costrinse la rovinosa guerra civile durata 17 anni. Fonti occidentali definiscono «una felice coincidenza» il fatto che gli sforzi per una soluzione equa nel parlamento libanese si incrocino coi lavori della (eccessivamente) reclamizzata conferenza di Annapolis, voluta dal presidente Bush e per la quale sta spremendo i tesori della sua eccezionale intelligenza politica la Signora Condy Rice, segretario di Stato americano. Con tutto il rispetto, non siamo d’accordo sulla «felice coincidenza». Il fatto è che la crisi, una crisi in feroce crescita, è uscita dai suoi storici percorsi, sparigliando le carte. Oggi siamo di fronte non già a una tradizionale «crisi del Levante», quella dei manuali, bensì a una triplice crisi: dal Nilo all’Eufrate, passando per la Palestina. Triplice perché ha visto l’entrata in scena (aggressiva, persino scostumata) dell’Iran. I suoi dirigenti, religiosi e laici, sono presenti in Iraq, affondano mani astute nel gorgo di Gaza in modo da inserirsi nel centenario scontro che infetta la Palestina. Va ricordato che Hezbollah, il partito di Dio, rappresentato nel parlamento di Beirut, è stato creato per volontà di Khomeini. Oggi, stando perigliosamente a ridosso del Libano, è un’esca avvelenata. Le accuse di avventurismo che un Egitto allarmato scaglia contro Hezbollah, non scuotono la determinazione essenzialista di Teheran. Quel presidente, il mistico Ahmadinejad, rivendica il diritto di possedere l’atomica. Etichettata, ovviamente, come «pacifica». Aiuta finanziariamente la Siria-sorella (gli alauiti di Damasco sono parenti stretti degli sciiti che dilagano in tutto l’Arco della Crisi), si infiltra persino in Arabia Saudita il cui regno sunnita definisce, appunto, «avventurista» la politica tipicamente sciita di Teheran. Al cospetto di codesta triplice crisi, né Israele, né i cosiddetti arabi moderati sembrano, oggi come oggi, in grado di non farla tracimare nel nucleare. In Libano s’è aperta soltanto una tregua. Quando usciranno i comunicati di Annapolis e vedremo l’ennesimo buco nell’acqua mediorientale, per il Libano sarà il momento della verità. Non possiamo consentire, noi, Italia, che quel piccolo, eroico paese subisca punizioni che non merita. I nostri soldatini sono laggiù, sotto comando italiano, anche per scongiurare ogni possibile catastrofe. Ma c’è un ma che attende smentita. Sembra che il nostro contingente non disponga di un suo (ineludibile) servizio di intelligence. Non so per quale motivo, dipenderemmo da quanto i nostri alleati avranno la bontà di comunicarci. Debbo ricordare che la missione a Beirut del generale Angioni, dei nostri bersaglieri si concluse senza colpo ferire. Lavorammo bene e senza fastidi, lasciando un magnifico, grato ricordo. Ma attenzione: i ragazzi di Angioni sbarcarono e operarono in un Libano il cui territorio era stato, in anticipo, «coltivato» da nostri validi uomini dei Servizi, come il generale Terzani e il colonnello Giovannone. Oggi è diverso: tutto s’è fatto difficile per un semplice motivo: Hezbollah è una pericolosa realtà bellica intrisa di fanatismo, di rapace intelligenza guerrigliera. E non illuda l’apparente appeasement di Damasco che ha vietato il «controvertice» dei palestinesi che si riconoscono in Hamas. Annapolis probabilmente produrrà aria fritta ma è comunque interessante apprendere che a spingere Damasco sia stato Putin. Passano i secoli ma i mari caldi sognati da Caterina II, evidentemente, non han perduto il loro «fascino». Forse la triplice crisi è destinata ad allargarsi. «La Palestina è terra di miracoli - diceva Ben Gurion -, ma anche di sorprese, non sempre felici».