Note: [1] a. s., la Repubblica 24/11; [2] Corriere della Sera 21/11; Alberto Simoni, Avvenire 22/11; [3] la Repubblica 19/11; [4] Meron Rapaport, Lཿespresso 29/11; [5] Maurizio Molinari, La Stampa 22/11; [6] Gadi Taub, Corriere della Sera 19/11; [7] Repub, 24 novembre 2007
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 26 NOVEMBRE 2007
Si svolgerà domani ad Annapolis nei locali dell’Accademia navale statunitense la conferenza concepita dal presidente americano George Bush come una cornice internazionale per lanciare la ripresa del negoziato di pace tra palestinesi e israeliani (l’ultima grande occasione?). [1] La lista ufficiale degli invitati comprende cento delegati in rappresentanza di 40 Paesi e sette organizzazioni internazionali. Gli Stati Uniti saranno rappresentati da Bush e dal Segretario di Stato Condoleezza Rice, Israele dal primo ministro Ehud Olmert e dal ministro degli Esteri Tzipi Livni, i palestinesi dal presidente Abu Mazen. Ci saranno gli altri membri del Quartetto per il Medio Oriente (Nazioni Unite, Unione Europea, Russia), l’ex primo ministro britannico Tony Blair, ora inviato per il Medio Oriente, la Lega e 17 Paesi arabi (compresi Siria e Libia), i membri del G8 (tra cui l’Italia), Australia, Brasile, Turchia, Cina, Città del Vaticano, Banca Mondiale, Fondo monetario internazionale ecc. [2]
Gli incontri plenari non prevedono nessuna fase negoziale. Tutto quello che accadrà ad Annapolis sarà la rivelazione dell’accordo che palestinesi e israeliani hanno trattato in questi giorni con la mediazione Usa. Quell’accordo, nelle intenzioni di Bush, sarà solo l’avvio di un negoziato che dovrebbe durare un anno, ovvero il tempo che rimane alla sua presidenza. [3] I palestinesi vogliono che Israele accetti la creazione di uno Stato palestinese nei confini del 1967, che Gerusalemme est ne sia la capitale, che si risolva definitivamente il problema dei profughi. [4]
Dei tre nodi, il più semplice da sciogliere è quello dei confini. Lo storico israeliano Benny Morris: «Con qualche aggiustamento ci si dovrebbe intendere sulla linea del ”67. Poi c’è Gerusalemme, sulla cui divisibilità sono scettico. A Camp David Barak era pronto a cederla secondo i parametri di Clinton ma i palestinesi rifiutarono. Oggi le condizioni sono peggiori e Barak ha imparato che il compromesso non paga. Infine ci sono i rifugiati, un rebus insolubile. Il mito del ritorno è parte viva dell’identità palestinese quanto la Terra Promessa lo era del sionismo. Ci sono tre generazioni di palestinesi cresciute con l’illusione d’invertire la marcia della storia. Non discuto se sia giusto, dico che per Israele ne va della sopravvivenza: se i profughi rientrassero scompariremmo, ci annienterebbero. E nessuno qui, neppure io, può accettarlo: morale o immorale che sia». [5]
Qualche giorno prima dell’uscita di scena di Sharon, dal quartier generale del nuovo partito cui quest’ultimo aveva dato vita, Kadima, venne diramato un breve comunicato che delineava la sua nuova piattaforma politica. Gadi Taub: «Il sionismo, si leggeva in tale documento, mira all’instaurazione di uno Stato ebraico democratico. Esso è dunque vincolato a un territorio di cui gli ebrei costituiscano la maggioranza della popolazione. Se Israele non rinunciasse ad alcuno dei territori occupati, gli ebrei diverrebbero una minoranza all’interno dello Stato. Ergo, Israele deve adoperarsi per una spartizione dei territori, con o senza pace. Per questo Sharon ha ceduto Gaza». [6]
Poco dopo, tuttavia, Hamas, salito al potere a Gaza, rifiutò la spartizione. Taub: «In altre parole, quando il fondamentalismo religioso israeliano è stato domato, quello palestinese è asceso al potere. Hamas ha contraccambiato il ritiro lanciando razzi sulla regione centrale di Israele. Così, il piano israeliano di ritiro graduale è oggi in fase di stallo. Come è possibile abbandonare i territori se il risultato che se ne ricava è una pioggia di razzi Qassam? Se la politica fosse un’impresa puramente razionale, Israele dovrebbe con tutta evidenza smantellare i suoi insediamenti, mantenendo soltanto l’esercito in Cisgiordania, finché non ottenga la garanzia che nessun razzo verrà più lanciato su Tel Aviv. Qui entrano però in gioco, ahimè, anche i sentimenti e le paure. Qualsiasi governo troverebbe difficoltà a sradicare dalle loro terre qualcosa come 200 mila cittadini, se la contropartita è apparentemente nulla: né la pace né la fine dell’occupazione». [6]
Una bozza del documento finale a cui lavorano israeliani e palestinesi è stata pubblicata giovedì dal quotidiano israeliano Haaretz. Il disaccordo tra le parti comincia già dalla definizione stessa del testo: per i palestinesi è un ”documento comune”, per gli israeliani una ”dichiarazione comune”. I palestinesi chiedono che i negoziati di pace si concludano otto mesi dopo Annapolis, o comunque non più tardi dello scadere del mandato di Bush (gennaio 2009), Israele non solo si oppone, ma chiede che nel documento si affermi che «Israele è la patria del popolo ebraico e la Palestina è la patria del popolo palestinese». I palestinesi si oppongono a ogni riferimento a Israele come stato ebraico. [7] Il presidente israeliano Shimon Peres: « impossibile raggiungere un accordo entro la fine del mandato di Bush». [8]
Gli israeliani sembrano considerare il summit solo un punto di partenza: le decisioni vere verranno dopo. Olmert: «Annapolis non può essere un fallimento. Il solo fatto che si svolga è un successo». [9] Amos Oz: «La distanza fra israeliani e palestinesi sui temi nodali del conflitto è ancora grande. Per questo il vertice di Annapolis non sarà molto più di un evento ufficiale accompagnato, tutt’al più, da un proclama di speranza per il futuro. Su entrambi i fronti i partecipanti alla trattativa sono in larga misura ostaggi degli estremisti che impediscono loro di fare alcuna concessione significativa. Eppure è bene ricordare che le posizioni di israeliani e palestinesi sono meno lontane oggi di quanto non lo siano mai state in questi ultimi cento anni di rabbia e di sofferenza». [10]
Se il negoziato dovesse fallire, arriverebbe l’ora degli estremisti (che pregano affinché si arrivi a un vicolo cieco). Oz: «In quel caso la soluzione di due Stati per due popoli potrebbe sfumare per sempre e saremo costretti a scegliere tra due catastrofi di proporzioni storiche: un unico Stato (nel quale gli arabi saranno quasi la maggioranza) tra il Giordano e il mar Mediterraneo, o un governo di apartheid ”all’israeliana” che perpetuerà gli insediamenti e opprimerà con la forza i palestinesi i quali, a loro volta, continueranno a ribellarsi all’occupazione». [10] Fatah sarebbe la prima a pagare le conseguenze del fallimento e molti si avvicinerebbero alle posizioni palestinesi più estremistiche, quelle di Hamas. Il risultato potrebbe essere una terza Intifada. [4]
Siamo in epoca post-Sharon e post-Arafat. Mahdi Abdul Hadi, direttore del Palestinian Academy Society for the Study of International Affairs: «Il premier israeliano Ehud Olmert e il presidente dell’Anp Abu Mazen sono anatre zoppe, senza risorse e senza visioni di futuro. Gli insediamenti in Cisgiordania continuano ad espandersi e Israele non sembra affatto interessato alla fine dell’occupazione, mentre le istituzioni palestinesi sono paralizzate dalla corruzione di Al Fatah e dalla guerra fratricida in cui l’ala militare di Hamas ha trascinato Gaza. In questa situazione i colloqui bilaterali e la stessa Conferenza di pace voluta dagli Stati Uniti non sono che meri esercizi di relazioni esterne». [11]
Secondo una fonte diplomatica, Israele starebbe pensando di giocare la carta della liberazione di Marwan Barghouti. Repubblica: « forse il leader di Fatah più popolare, l’unico ritenuto in grado di bloccare l’espansione dei fondamentalisti di Hamas, ma è in carcere in Israele, condannato a diversi ergastoli per avere ordinato attentati terroristici. La sua liberazione sarebbe il vero colpo di teatro di Annapolis». [3] 48 anni, tra i fedelissimi di Yasser Arafat già dalla prima Intifada (1987), Barghouti per gli israeliani è un assassino, per i palestinesi un eroe della resistenza. Di certo, fu tra i primi a denunciare e combattere la corruzione all’interno di Fatah, fino a entrare in conflitto con lo stesso Arafat. La sua liberazione è chiesta anche dalle organizzazioni pacifiste israeliane e da molti deputati del Parlamento europeo. [4]
La responsabilità principale di un progresso nella trattativa pesa sulle spalle del governo e dell’opinione pubblica israeliani perché è Israele ad avere il controllo dei territori palestinesi, non il contrario. Oz: «Se Ehud Olmert sceglierà di concedere ai falchi della sua coalizione (o sarà costretto a farlo) la facoltà di arrestare l’intero processo di pace, il risultato sarà che, di qui a breve, avremo Netanyahu al governo. Ma non solo. Anche da parte palestinese gli estremisti avranno il sopravvento sui moderati e anziché con Abu Mazen ci troveremo a fare in conti con un fronte bellicoso nel quale sarà l’Iran a tirare i fili». [10]
Purtroppo la questione palestinese è solo «una portata secondaria all’interno del menu di una cena molto più articolata». Mahdi Abdul Hadi: «E il menu parla di Iran, Hezbollah, esiti della guerra in Iraq. I piatti secondari sono Fatah, Hamas, Abu Mazen, Olmert, Kadima, il Labour Party...». [11] Secondo Morris oggi per Israele il problema è l’Iran mentre i palestinesi sarebbero alla lunga irrilevanti. La vera questione dunque è: come si risolve l’affare Iran? «Le opzioni sono varie, tutte impraticabili. Il massimo sarebbe che rinunciasse spontaneamente al nucleare. O che le sanzioni funzionassero, utopia senza l’aiuto di Cina e Russia. O ancora che il regime degli ayatollah cadesse, ma è troppo ricco per implodere». [5]
Ci sarebbe la via americana: Washington attacca l’Iran e con otto settimane di bombardamenti aerei rade al suolo gli impianti. Morris: «Solo che gli Usa sono impantanati in Iraq e poco propensi a nuove avventure. Il cerino è nelle mani d’Israele: possiamo scegliere se convivere con l’Iran atomico, e sarebbe folle, o annientarlo. Come? Le armi convenzionali non bastano e ci resta solo l’opzione atomica, milioni di morti, uno scenario catastrofico. Questo oggi è il vero dilemma israeliano, Annapolis è nulla». [5]