Sergio Romano, Corriere della Sera 24/11/2007, 24 novembre 2007
Al netto della commozione e del dolore io, comunista, sto coi poliziotti. Loro, i neofascisti, li vorrebbero tutti al muro
Al netto della commozione e del dolore io, comunista, sto coi poliziotti. Loro, i neofascisti, li vorrebbero tutti al muro. Ecco uno dei paradossi di questo nostro strano Paese. Fin troppo facile ricordare e citare il Pasolini che stava dalla parte dei poliziotti (nulla è cambiato da allora: tutta gente del Sud e con salari da sopravvivenza) contro i giovani universitari in rivolta a Valle Giulia. Oggi non ci sono più questi giovani ma ne troviamo altri, ugualmente viziati, ugualmente violenti, ugualmente neofascisti. In un Paese dove la tolleranza e la mancanza di rigore (anche morale) ha condotto a una lenta e progressiva putrefazione di ogni pur minimo buongusto etico, a un buonismo disastroso che alleva alla violenza. Mi dispiace per il povero ragazzo ucciso ma io, da comunista, sto con i poliziotti. Del resto la polizia era intervenuta per normali attività di ordine pubblico: i coltelli, le biglie di metallo, le cinghie, i sassi trovati all’autogrill parlano, purtroppo, chiaro. Massimo Gatta massimo.gatta2@tin.it Caro Gatta, Credo che occorra ricordare anzitutto ciò che accadde a Valle Giulia e le ragioni per cui in quella circostanza Pier Paolo Pasolini decise, come lei scrive, di stare «dalla parte dei poliziotti». La «battaglia» ebbe luogo il 1? marzo 1968 dopo altre giornate in cui studenti liceali e universitari si erano scontrati con polizia e carabinieri, soprattutto intorno al Palazzo di Giustizia. Da piazza di Spagna, dove si erano riuniti circa duemila studenti, il corteo raggiunse Valle Giulia, sede della Facoltà di architettura, presidiata da 200 «celerini» e carabinieri. La battaglia durò sino al pomeriggio e segnò, con l’occupazione dell’Università di Torino, l’inizio d’una rivoluzione strisciante che continuò in forme diverse sino all’inizio degli anni Ottanta. Alla fine della giornata si contarono 144 feriti tra le forze dell’ordine e 47 fra gli studenti, 228 fermi, 4 arresti e 8 automezzi bruciati. Qualche mese dopo la «battaglia di Valle Giulia », L’Espresso pubblicò una poesia intitolata «Il Pci ai giovani » che Pasolini aveva scritto per la rivista Nuovi Argomenti e in cui si poteva leggere, tra l’altro: «... Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte/ coi poliziotti,/io simpatizzavo coi poliziotti!/Perché i poliziotti sono figli di poveri./Vengono da periferie, contadine o urbane che siano./(...) Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care./Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia./Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!/ I ragazzi poliziotti/che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione/risorgimentale)/ di figli di papà, avete bastonato,/ appartengono all’altra classe sociale./ A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento/di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte/ della ragione) eravate i ricchi,/ mentre i poliziotti (che erano dalla parte/del torto) erano i poveri. ...». In questi versi di Pasolini vi è una certa ambiguità (non certo i migliori della sua produzione poetica). Il poeta non dà torto agli studenti, anzi. Si limita semplicemente a constatare una sorta di provocatorio paradosso: i rivoluzionari erano figli viziati della borghesia, forse sedotti dal fascino della violenza, e i nemici contro cui si erano battuti a Valle Giulia erano i figli del proletariato. Pasolini non diceva quali lezioni sarebbe stato utile trarre da questo paradosso. Occorreva educare i ragazzi borghesi a una migliore comprensione della lotta di classe? Occorreva fare opera di educazione rivoluzionaria nei ranghi della polizia? Si limitava a constatare una contraddizione e a sorriderne amaramente. Una poesia, d’altro canto, non è un trattato e non ha l’obbligo d’impartire lezioni. Credo che il suo giudizio sulle manifestazioni di teppismo degli scorsi giorni, caro Gatta, sia giusto, ma non sono sicuro che lei possa invocare in questo caso il nome di Pasolini. Vi è un altro passaggio della sua lettera con cui non sono d’accordo. Penso che l’uso della parola «neofascisti», con cui lei definisce i tifosi violenti, sia fuori luogo. Per due ragioni. In primo luogo perché il fascismo non fu soltanto squadrismo e cieca violenza. A seconda dei momenti e delle circostanze fu uno stato d’animo, un movimento, un partito politico, un regime, e fu contraddistinto da diverse fasi storiche. Ridurlo alla sua dimensione violenta significa rinunciare a comprendere perché abbia conquistato il potere e ottenuto il consenso, in alcuni momenti, di una parte importante della società italiana. Significa pronunciare una sorta di sentenza collettiva contro parecchi milioni di italiani. In secondo luogo penso che la sinistra dovrebbe smettere di definire fascisti i propri nemici. La violenza giovanile dei nostri tempi – da quella dei naziskin a quella dei centri sociali e dei noglobal – è un fenomeno più complicato che non può essere analizzato con un apriscatole vecchio e arrugginito come l’espressione «fascista ».